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#31 - Come il fascismo cambiò l’Italia: scuola, diritto, censura

Avanzato

December 18, 2023

Trascrizione

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Ciao amici e bentornati su Podcast Italiano, un podcast per imparare l’italiano attraverso contenuti interessanti. In questo episodio di livello avanzato riprendiamo la serie iniziata qualche mese fa sul fascismo italiano. Questa serie di episodi, scritti dal grande Marco Cappelli di Storia d’Italia, vuole indagare la parte più oscura della storia italiana contemporanea, per scoprire com’è nato, come si è sviluppato e come è caduto il Fascismo.

Ah, se hai bisogno della trascrizione completa di questo episodio, la trovi sul mio sito web. Ti lascio il link nelle note dell’episodio.

Trascrizione interattiva dell'episodio, con il glossario delle parole difficili (consigliato)

Scarica la versione PDF della trascrizione (in arrivo)

Facciamo un breve riassunto della puntata precedente (che vi consiglio di riascoltare, se non vi ricordate granché): abbiamo visto come il risentimento di un paese che aveva vinto la Prima guerra mondiale, ma che si comportava come se l’avesse persa, finì per sfociare in un movimento che voleva rendere l’Italia “great again”. Ovviamente seguendo un capo carismatico, l’ex socialista diventato militarista Benito Mussolini.

La via che aveva condotto al Fascismo era stata tappezzata di uomini deboli, come il Re Vittorio Emanuele II: i politici italiani avevano permesso a Mussolini la sua ascesa per paura dei Comunisti e di una rivoluzione rossa come in Russia cinque anni prima. La politica “liberale” tradizionale aveva pensato di poter gestire il Fascismo, usandolo come arma contro gli estremisti di sinistra. Alla fine, erano stati loro ad essere usati, e Mussolini aveva preso il potere assoluto. Con l’assassinio di Giacomo Matteotti, politico socialista e prima vittima politica del regime, il Fascismo aveva gettato la maschera e aveva instaurato una vera e propria dittatura.

In questo secondo episodio, cerchiamo di dare risposta ad un’altra domanda. Non più perché il Fascismo nacque in Italia, ma la seguente: “che impatto ha avuto il Fascismo nella storia italiana contemporanea?” Nel farlo, vorrei in un certo senso fare un gioco: far finta di non conoscere la tragica fine di Mussolini e della sua dittatura. Mettiamo da parte l’alleanza con Hitler, la Seconda guerra mondiale, la devastazione dell’Italia in quel conflitto. Con questa puntata, in un certo senso, cerchiamo di valutare il Fascismo come se la guerra non ci fosse stata, come cercano di fare spesso i suoi sostenitori. Fu il Fascismo un periodo di sviluppo e crescita del fragile stato nazionale italiano? Ne parleremo nei prossimi due episodi.

Nell’affrontare il periodo che va dal 1925 al 1936 non penso sia utile andare in ordine cronologico. Penso sia più utile affrontare invece gli argomenti per temi. Questi sono anni in cui il regime operava quasi senza opposizione, era libero in sostanza di plasmare l’Italia come meglio credeva (per quanto può esserne in grado qualunque governo, sempre sottoposto a più pressioni, grandi e piccole). Il Fascismo, d’altronde, non voleva limitarsi a gestire quello che già esisteva. Mussolini continuava a giurare e spergiurare che si trattava di un movimento che intendeva rivoluzionare l’Italia: farne una nazione forte economicamente, politicamente, socialmente, militarmente. In un certo senso, l’obiettivo era quello dei patrioti del Risorgimento: fare dell’Italia una grande potenza europea.

Vorrei iniziare questa carrellata di decisioni politiche del Fascismo forse da una delle cose meno visibili, ma più importanti, perché ebbe un impatto molto profondo sulla società italiana: la riforma della scuola. La riforma fu ideata e varata già nel 1923. Perfino nel suo nome – la riforma Gentile – è legata ad uno dei più importanti ministri di Mussolini: Giovanni Gentile.

La scuola in Italia era sempre stata elitaria, con un’istruzione primaria in teoria aperta a tutti, dai 6 agli 11 anni. La maggior parte delle persone terminava lì il corso di studi, le ragazze spesso anche prima. Ma questo vale per quelli che a scuola ci andavano: nel 1922, ancora un buon 25% dei bambini non frequentava proprio la scuola, e aiutava i genitori nei lavori dei campi, o a casa. All’ascesa del Fascismo, in Italia imperava ancora un diffuso analfabetismo, quasi scomparso nell’Europa più sviluppata, ovvero non saper leggere o scrivere.

Le sfide per Gentile erano molteplici: oltre all’analfabetismo, c’era il problema della dispersione scolastica (cioè i giovani che non vanno a scuola o non ci vanno regolarmente); la necessità di formare nuove generazioni di italiani educati alle nuove scienze, capaci di interpretare il mondo di ferro, petrolio e acciaio che aveva creato la rivoluzione industriale; c’era il bisogno di formare meglio le ragazze, in modo da dischiudere il valore di metà della popolazione italiana. Di fronte a tutte queste necessità, Gentile decise che la priorità del Fascismo era… ridurre il numero di chi studiava, tagliare fuori le ragazze dagli studi superiori e concentrare tutta l’attenzione delle classi dirigenti sullo studio dei classici e delle materie umanistiche. “Cosa?” – Vi chiederete voi. Sì, è proprio così. Il punto è che questo era sempre stato l’obiettivo di Giovanni Gentile.

Giovanni Gentile era un filosofo e pedagogo, considerato nel primo Novecento come una delle persone di punta della cultura italiana. E che punta… aveva in un certo senso contribuito a creare lui stesso l’ideologia del fascismo. Nel 1925 Gentile fu il redattore del manifesto degli intellettuali fascisti, che così declama: “Le origini prossime del fascismo risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica democratica e socialista allora imperante”.

Gentile, arrivato al potere, aveva chiare idee sulla scuola: il problema dell’istruzione in Italia era che era aperta a troppe persone, c’erano troppi iscritti e una spiacevole commistione tra le classi sociali. In altre parole, i poveri non sapevano stare al loro posto! L’intellettuale aveva espresso le sue idee già in un saggio del 1902. Gentile propugnava una concezione elitaria, antimoderna e dichiaratamente antidemocratica dell'istruzione superiore. Cito le sue “illuminate” parole: “Gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell'ottimo senso della parola, ovvero studi di pochi, dei migliori [...]; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l'ingegno (…) o il reddito e l'affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de' più alti ideali umani.” In sostanza, i non ricchi o non talentuosi potevano mettersi l’anima in pace e continuare a lavorare nei campi o in fabbrica.

Uno degli obiettivi della riforma era la riduzione del numero complessivo degli allievi nelle scuole medie e superiori. In un'intervista del 1923 Gentile così rispondeva alle preoccupazioni diffuse, al riguardo, fra i genitori degli alunni: “Alla domanda, un po' irosa ‘Come si fa a trovar posto per tutti gli alunni?’ io rispondo: Non si deve trovar posto per tutti! E mi spiego. La riforma tende proprio a questo: a ridurre la popolazione scolastica.” E se si giudica la riforma su queste basi, fu un travolgente successo: restringendo l’accesso alle scuole medie e superiori, incanalando le persone in percorsi differenziati, Gentile raggiunse il suo obiettivo. In anni di boom demografico, la popolazione scolastica superiore italiana, pensate, diminuì.

Oltre al classismo, la riforma Gentile era improntata a un accentuato maschilismo. Sì, non ci siamo fatti mancare nulla. Dalla fine dell’Ottocento, era aumentata di molto la popolazione femminile nelle scuole pubbliche medie e superiori. Questo per Gentile era una minaccia per il modello sociale da lui difeso, nel quale vigeva una rigorosa divisione dei ruoli fra i due sessi: le donne dovevano diventare mamme e procreare per la patria, mica mettersi in testa di avere delle passioni intellettuali o, addirittura, delle professioni! Siamo pazzi? Le donne… lavorare? Nel 1918 Gentile aveva sostenuto che la scuola media pubblica – istituita prima della Prima guerra mondiale – sarebbe stata rovinata dall'afflusso di allieve di sesso femminile, che il filosofo riteneva moralmente e intellettualmente inferiori ai maschi. Cito: “La scuola oggigiorno è invasa dalle donne, che ora si accalcano alle nostre università, e che, bisogna dirlo, non hanno e non avranno mai né quell'originalità del pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell'umanità”.

In Italia, come nel resto d’Europa, durante la “grande guerra” per necessità le donne erano uscite dal tradizionale ruolo di responsabili della casa e della famiglia. Con gli uomini al fronte, le donne cominciarono a prenderne il posto nelle attività lavorative pubbliche e private. E in quella nuova quotidianità scoprivano in sé stesse capacità e risorse umane di autonomia che erano state sempre soffocate o rimosse. Il Fascismo invece si impegnò profondamente a rimetterle al loro posto: in casa e in cucina, il posto che Dio gli aveva riservato. Cito di nuovo Gentile: “[il corpo della donna] resterà sempre lo stesso, con la materialità greve e massiccia che la donna trascinerà con sé per tutta la vita, come è il suo destino. Nella famiglia la donna è del marito.” Ancora, il “sociologo” fascista Ferdinando Loffredo scrive nel 1938: “Le donne debbono tornare ad un’assoluta soggezione all’uomo, padre o marito che sia; (...) Pertanto, la donna deve avere solo l’istruzione necessaria perché sia un’eccellente madre di famiglia e padrona di casa. E quante a questo si ribellano, dimostrano l’inferiorità del cervello femminile.”

Uno degli scopi del fascismo sarà proprio di indirizzare il più possibile le donne ad interrompere gli studi alle scuole elementari o – ancora meglio – anche solo ai primi tre anni di elementari: questo è il caso della nonna di Marco Cappelli, scrittore di questo episodio, che si ricordava molto bene come le fu detto senza mezzi termini che tre anni di elementari per lei erano sufficienti. E se vi chiedete se lo stesso avvenisse anche nel resto d’Europa, la risposta è no: praticamente ovunque in Europa e Nordamerica negli stessi anni cresceva la partecipazione delle donne al sistema scolastico, economico e culturale. In questo, l’Italia fu un’eccezione, negativa.

Intere generazioni di donne italiane, cresciute nella progressiva liberalizzazione delle carriere, degli studi e della loro condizione dopo l’Unità d’Italia, si ritrovarono quindi gettate indietro nel tempo: questo non avvenne solo nella scuola, beninteso, visto che il Fascismo puntò tutto sull’incentivare le nascite e i matrimoni a sfavore di qualunque desiderio indipendente delle donne.

Tornando alla scuola, per Gentile questa doveva affermare e propagandare i valori fascisti. Ancora Gentile, nel 1922: “[la riforma dovrà sostenere] quei principi che erano stati profondamente scossi nel disordine politico degli anni precedenti: rispetto della legge, ordine, disciplina, obbedienza all'autorità dello Stato.” Anni prima dell’avvento del nazismo in Germania, in Italia generazioni di studenti furono avviati verso una scuola sempre più totalitaria. In questo quadro, dopo l’accordo con la Chiesa nei patti lateranensi, che sancirono la pace tra Stato italiano e Chiesa dopo vari decenni in cui le due istituzioni non si erano parlate (se vi ricordate, lo Stato italiano aveva sottratto i territori della Chiesa, ad eccezione del Vaticano, e i papi si erano definiti appunto “prigionieri in Vaticano”). Dicevo, dopo la pace tra Stato fascista e Chiesa, la religione cattolica entrò prepotentemente nelle scuole italiane, fino ad allora laiche. Nel periodo Fascista, la religione cattolica veniva insegnata direttamente da dei sacerdoti nelle scuole pubbliche. Gentile affermava che: “al fanciullo italiano deve essere insegnata la religione cattolica, nello stesso modo che gli si insegna la lingua degli scrittori italiani.” Insomma: il cattolicesimo come la lingua di Dante.

Un altro aspetto della riforma, nell’epoca dei grandi progressi tecnologici, fu di mettere l’accento  sugli studi umanistici e classici, ritenuti di migliore qualità e importanza rispetto a quelli scientifici: ora, non c’è assolutamente nulla di male a studiare il latino e il greco antico, anzi, la particolare attenzione dell’Italia al mondo classico è giustificata dalla sua storia. Quello che però caratterizzerà la scuola di Gentile è che indirizzerà pressoché tutta la classe dirigente a studiare, nelle scuole superiori, esclusivamente le materie umanistiche, tralasciando la scienza e la tecnica, invece molto insegnate e valorizzate nei paesi più avanzati, come la Francia, il Regno Unito e la Germania, per non parlare degli Stati Uniti.

In Italia, la scuola per eccellenza diverrà quindi Il liceo classico, la scuola della classe dirigente italiana fino agli anni ‘80, l’unica che nella riforma Gentile apriva le porte a tutte le università: lì studiavano i futuri capi, e studiavano il latino, il greco, la filosofia e la storia, ma non certo matematica, fisica o – Dio non voglia – l’economia. Che materia barbara, l’economia! Poi c’era il liceo scientifico, che era un classico senza il greco ma con più matematica, che dava accesso ad alcune facoltà scientifiche dell’università, considerate comunque di secondo livello (io, a proposito, ho studiato al liceo scientifico). Per entrambi, parliamo comunque di un’élite della popolazione, la stragrande maggioranza degli alunni a quei tempi non andava oltre le elementari.

Riassumendo, la scuola di Gentile era tutta volta all’autoritarismo, al maschilismo, al passatismo, ad una civiltà agraria e non industriale. Cosa potrebbe mai andare storto? Come potremmo aspettarci, la riforma formò delle classi dirigenti italiane che erano maschiliste, passatiste, inadeguate a comprendere il mondo moderno. Nel dopoguerra, l’Italia moderna sarà spesso costruita più che altro da imprenditori che non avevano studiato.

La riforma Gentile ha avuto un enorme impatto sulla storia italiana, perché ahimè è sopravvissuta al Fascismo. Nonostante numerose riforme, come l’unificazione degli studi delle medie, l’apertura dei corsi universitari a tutti gli studenti – nel corso degli anni ’60 – e il rifiuto dell’elitarismo intrinseco del sistema di Gentile in seguito alle proteste studentesche del 1968, nonostante tutto questo l’impalcatura di base della scuola italiana è ancora oggi, pensate, quella di Gentile. Ci sono scuole superiori di serie A – i Licei; di serie B – gli istituti tecnici; e di serie C – gli istituti professionali. Si studia in classi dove il professore impartisce la lezione e gli studenti prendono nota e studiano sui libri. Il nozionismo è ancora centrale: troppo spesso si imparano a pappagallo nozioni, informazioni senza chiedersi perché, più che ragionare sui rapporti di causa-effetto, sulla reale comprensione delle materie e favorire il pensiero critico. Potrei fare molti altri esempi, ma posso assicurarvi che l’ombra di Gentile ancora incombe sulla scuola italiana, anche se ovviamente moltissimo è cambiato e continua a farlo negli anni, per fortuna.

Una piccola pausa. Come vedi trovo davvero interessante parlare di storia dal punto di vista del suo impatto sul presente. Ed è quello che facciamo in molti degli episodi di Dentro l’Italia, in italiano, il nuovo videocorso di livello avanzato di Podcast Italiano, scritto da me e Marco Cappelli (che ha scritto questo episodio) e che affronta argomenti interessantissimi di cultura e società, ma anche di storia, soprattutto dello scorso secolo, e di come questa ha plasmato l’Italia di oggi. Ti aiutiamo a capire perché l’Italia di oggi è così com’è. Qualche esempio? Parliamo del miracolo economico, del ruolo della chiesa in Italia, di perché l’Italia ha così tanta arte, della storia della mafia e molto altro. E facciamo tutto questo mentre ti aiutiamo ad imparare l’italiano con approfondimenti grammaticali, lessicali, esercizi, flashcards, sfide di scrittura. Il corso è in questo momento in fase di creazione per le persone che hanno acquistato la prevendita lo scorso ottobre e sta davvero piacendo molto agli iscritti. Tra non troppo tempo riaprirò temporaneamente le vendite, dunque se il corso ti interessa iscriviti alla lista d’attesa che ti lascio nelle note di questo episodio per avere comunicazioni sul corso e per garantirti delle condizioni speciali riservate solo agli iscritti della lista d’attesa. Detto questo, torniamo all’episodio.

Il Fascismo mise mano anche ad un altro aspetto importante della società: il Codice penale, cioè le leggi alla base del diritto penale. Questo era stato creato dal regno liberale, nel 1889, con l’obiettivo di rendere più moderna e moderata la gestione della giustizia. Il fascismo voleva tornare ad un sistema penale più autoritario, che colpisse non tanto il reato, ma la persona che commetteva il reato. Grazie al lavoro di importanti intellettuali dell’Illuminismo e dell’Ottocento, si era arrivati a concepire chi commetteva un reato non tanto come una persona da punire, o non solamente, ma come un elemento della società da rieducare e reinserire nella società. Tutto questo si perse con il Fascismo.

La riforma del codice penale, il cosiddetto “codice Rocco”, prende il nome del suo principale ideatore – il ministro della giustizia Alfredo Rocco. Costui, nel 1914, aveva già illustrato i suoi principi nazionatlistici, che, dopo la guerra, confluirono nel Fascismo. Cito: “nel campo internazionale l’individualismo estremo diventa umanitarismo, pacifismo, internazionalismo” tutte parolacce per Rocco, che continua: “tutte queste sono forme in cui l’egoismo individualista afferma la sua preminenza assoluta sugli interessi della collettività nazionale [...] Il nazionalismo, invece, vuole salvare la società italiana dalla polverizzazione individualista”. Poco più avanti afferma: “oltre l’individuo, oltre la classe, oltre l’umanità esiste la nazione, la razza italiana; l’individuo non vive solo nella classe e non vive affatto nella società di tutti gli uomini, ma vive invece e principalmente in quell’aggregato sociale, costituito dagli uomini della stessa razza, che è la nazione”.

Con queste belle idee, Alfredo Rocco si mise al lavoro per redigere il Codice penale. Tra le principali innovazioni ci fu la reintroduzione della pena di morte per i delitti comuni, che era stata abolita quarant'anni prima: d’altronde l’Italia era il paese di Cesare Beccaria, il primo intellettuale dell’Illuminismo che aveva sostenuto l’abolizione della pena di morte, nel Settecento, scrivendo un libro che divenne un best seller mondiale: “dei delitti e delle pene”. Inoltre, il codice Rocco introdusse anche reati di tipo prettamente politico, tra i quali: il disfattismo politico e il disfattismo economico (in sostanza parlar male del governo o dell’andamento dell’economia), ma anche l’attività antinazionale del cittadino all'estero (parlar male dell’Italia all’estero) e il vilipendio della nazione italiana, che può voler dire tutto. Insomma, il messaggio era semplice: non criticare il regime.

Lì dove non arrivava la legge, il Fascismo creò comunque degli organi di controllo extragiudiziali, con lo scopo di imbavagliare giornali, cultura e politica. Uno di questi era la polizia politica fascista, L’OVRA o “Opera Vigilanza Repressione Antifascismo”. L’OVRA fu fondata nel 1926, su ispirazione della polizia politica sovietica. Gli agenti dell’OVRA erano celebri nell’Europa degli anni ’30 per la loro spietata efficienza, capace di infiltrare organizzazioni di dissidenti anche all’estero e di operare nella più completa segretezza: la Gestapo nazista non operava in modo differente. L’OVRA, per il suo lavoro, si appoggiava su un’altra istituzione, che era precedente al Fascismo ma che fu potenziata e rafforzata dal regime mussoliniano: il casellario politico centrale, dove erano schedati tutti gli intellettuali, politici, sovversivi, attori. Un archivio costantemente aggiornato. In epoca fascista, vi erano schedate più di 100.000 persone.

Ma cosa accadeva agli oppositori del Fascismo, incappati nelle maglie dell’OVRA? Il Fascismo era arrivato al potere con la violenza politica, ma dopo l’instaurazione del regime i condannati a morte furono tutto sommato molto rari. In generale gli oppositori politici venivano spediti in delle prigioni su isole remote come Lampedusa, Pantelleria, Ustica: il cosiddetto confino. Migliaia di persone passarono da queste prigioni, alcuni ci restarono per decenni, come il capo dei comunisti italiani, Antonio Gramsci, che in prigione scrisse “I quaderni dal carcere”, un’opera di appunti di teoria politica ed economica che fu di grandissimo successo nel dopoguerra. La realtà è che il Fascismo non aveva bisogno di uno stato del terrore, gli italiani si adattarono molto presto a non opporre alcuna resistenza; gli oppositori erano per lo più all’estero – in Francia soprattutto.

Il Fascismo lavorò anche alla censura: furono istituiti uffici per controllare tutte le pubblicazioni, dai romanzi alle opere teatrali, ma con un occhio particolare ai mezzi di comunicazione di massa. Tutta la produzione di giornali, film e programmi radiofonici era direttamente decisa dal fascismo, attraverso l’invio ai giornalisti delle cosiddette “veline” o istruzioni su cosa scrivere e pubblicare, chiamate così perché scritte su carta velina, una carta particolarmente leggera e sottile, adatta a produrre messaggi dattilografati in molte copie. Volete qualche esempio di velina? Eccone una del 1930, l’anno dell’approvazione del codice Rocco e del ritorno della pena capitale: “Tutte le autorità cui mi rivolgo sanno che è assolutamente proibito prendere fotografie di esecuzioni capitali”. O questa, del 1933: “Il Corriere della Sera e il Mattino hanno pubblicato due disegni riproducenti il Duce. Uno è piaciuto, l'altro no; vale quindi, anche per i disegni, la norma vigente per le fotografie e cioè che debbono essere precedentemente presentate all'Ufficio stampa del Capo del Governo per avere l'autorizzazione alla pubblicazione”. O quella meravigliosa del 1935: “Il sottosegretario Ciano ha deplorato l'abitudine dei giornali di pubblicare fotografie, corrispondenze e titoli come quella sul freddo intenso a Roma, Napoli sotto la neve, o la neve a Palermo. In questo modo si sviano le correnti turistiche del paese”. Perfino il freddo era abolito dal fascismo… o meglio, parlarne.

I censori ampliarono negli anni la loro sfera di attenzione: inizialmente cercarono di censurare solo affermazioni chiaramente ostili al regime e al Duce, o che andavano contro il nazionalismo. La censura era attenta soprattutto quando nelle produzioni degli spettacoli si rintracciava una qualche considerazione celebrante l'individualismo che mettesse in discussione la supremazia dello Stato, principio supremo dell'ideologia fascista. Lo abbiamo già visto nelle parole di Rocco e di Gentile.

Con il passare degli anni, la censura divenne più efficace ed invasiva e iniziò a prendersela anche con chi sminuiva in qualunque modo qualsiasi politica del governo fascista: per esempio quelle a favore della maternità e delle nascite, dell’autarchia economica o di altre politiche del regime. Il culmine fu nel 1937, quando fu istituito il “Ministero della cultura popolare” o MinCulPop. A fine anni ’30, negli anni più totalitari del regime fascista, il governo controllava qualunque espressione artistica, culturale e scientifica all’interno dello Stato italiano. E se il MinCulPop vi ricorda il futuro distopico di “1984” di George Orwell, non è certamente un caso: Orwell si ispirò anche agli istituti dell’Italia fascista, oltre che della Germania nazista e dell’Unione Sovietica.

Bene, per questo episodio ci fermiamo qui. Nel prossimo parleremo di economia, industria, politica estera e colonialismo.

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Infine, ti ricordo di dare un’occhiata alla trascrizione sul mio sito se ne hai bisogno. E se l’idea di un corso di lingua italiana che racconta come la storia e i cambiamenti culturali e sociali hanno influenzato l’Italia di oggi ti può interessare, iscriviti alla lista d'attesa di Dentro l’Italia, in italiano. Il link è, come sempre, nelle note dell’episodio.

A presto!

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