Storia della lingua italiana: i documenti più antichi
Note e risorse
Trascription
Sign up or sign in to keep reading
Ciao a tutti, benvenuti e bentornati su Podcast Italiano, il podcast per imparare la lingua italiana attraverso contenuti interessanti e autentici. Questo episodio, di livello avanzato, fa parte di una serie che ho iniziato qualche tempo fa incentrata (Incentrato su: concentrato su, che ha al centro - based on, focused on, about) sulla storia della lingua italiana. Questo è il secondo capitolo del nostro viaggio all’interno della storia dell’italiano. Troverete l’intera trascrizione di questo episodio sul mio sito, podcastitaliano.com. Il link è nella descrizione dell’episodio.
Incentrato su: concentrato su, che ha al centro
based on, focused on, about
Prima di affrontare l’argomento di oggi vorrei riprendere alcuni concetti importanti che ho spiegato nel primo capitolo (il quale vi consiglio di ascoltare prima di questo se non lo avete ancora fatto).
Nel primo episodio di questa serie abbiamo parlato del latino volgare, ovvero quell’insieme (Insieme: un gruppo, una serie - a set, a series) di lingue (perché non si trattava di una sola lingua unitaria) parlate dal popolo romano, vale a dire dalle persone comuni. Un insieme di lingue che era molto eterogeneo (Eterogeneo
misto, vario - diverse, mixed), variegato, in quanto il territorio sotto il controllo di Roma era, come sapete, piuttosto vasto.
Nell’episodio di oggi impiegherò nuovamente la parola volgare, ma non riferendomi al latino volgare di cui abbiamo parlato la scorsa volta: dobbiamo infatti fare una distinzione tra “latino volgare e “volgare” tout court. Il termine “volgare” in Italia ha iniziato ad essere impiegato nel medioevo, con il significato di lingua bassa, lingua del popolo; quindi in contrapposizione (In contrapposizione: contrapposto, opposto a - as opposed to, in contrast to) con la lingua latina conosciuta e utilizzata dai letterati, dagli studiosi, dalle persone dotte (dotto (agg. qui):colto, erudito learned, erudite). Come abbiamo visto nel corso dei secoli il latino volgare si è distanziato così tanto dalla lingua latina classica che progressivamente è diventato sempre più incomprensibile: una vera e propria lingua straniera, che nessuno parlava da madrelingua e che bisognava studiare, come voi studiate oggi l’italiano. Dicevo, nel medioevo si parlava quindi di “volgari”, al plurale, per indicare grossomodo ciò che noi chiameremmo “dialetti”. Il termine “dialetto” però ha iniziato ad essere impiegato solamente nel periodo del Rinascimento italiano, quindi non prima del Quattrocento..
A proposito, una breve parentesi linguistica. In italiano è comune fare riferimento ai secoli in due maniere: per esempio, per riferirci al periodo che va dal 1401 al 1501 potremmo parlare di “quindicesimo secolo” o anche di “Quattrocento”, omettendo “Mille” e mantenendo solo “Quattrocento”, (e questo vale per tutti i secoli dopo l’anno 1000, quindi Cento, Duecento, Trecento, ecc.). Quando li scrivete, ricordatevi che la prima lettera va maiuscola (lettera -maiuscola: lettera grande - capital letter) grande. Quindi “Quattrocento” e quindicesimo (XVI) secolo sono sinonimi, mentre per fare riferimento a un secolo precedente l’anno 1000, per esempio, quello che va dall’anno 501 all’anno 600 d.C (dopo Cristo) dobbiamo per forza parlare di “sesto secolo” (V).
Dicevo, si è iniziato a parlare di dialetti a partire dal Quattrocento (quindicesimo secolo, quindi). “Dialetto” è un termine preso in prestito dalla lingua greca e che, come “volgare”, denotava una contrapposizione tra lingua alta e di prestigio, ovvero l’italiano (che a quel punto non era più considerato un semplice volgare ma lingua della letteratura a pieno titolo) (a pieno titolo: (qui) riconosciuta universalmente come tale - in its own right) e la lingua bassa, delle persone comuni, il dialetto.o
Ma “non mettiamo il carro davanti ai buoi” (mettere il carro davanti ai buoi (frase idiomatica): essere precipitosi, agire in modo prematuro - put the cart before the horse) come diciamo noi, che significa “non anticipiamo i tempi”. Riprendiamo la storia della lingua italiana da dove l’abbiamo lasciata, ovvero da quel periodo successivo la caduta dell’Impero Romano d’occidente, quindi nell’Alto medioevo, ovvero all’incirca nel sesto, settimo, ottavo, nono secolo: la lingua latina volgare sta mutando in ogni zona del territorio che in passato apparteneva a Roma, la cosiddetta Romània (da non confondere con Romanìa che indica il paese che ha come capitale Bucharest).
È ben consapevole di questa differenza Carlo Magno, re dei Franchi, che nell’anno 813, un anno prima della sua morte, convoca il Concilio di Tours. In questa riunione si decide che nei territori che corrispondono alle odierne (odierno: di oggi - today’s, modern day’s) Francia e Germania , che erano dominate dai Franchi, l’omelia (cioè la parte della messa in cui il sacerdote si rivolge ai fedeli, che si chiama anche predica) non andava più detta in latino, ma nella “rusticam Romanam linguam aut Theodiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur”, ovvero “nella lingua romana rustica tedesca, affinché tutti possano comprendere facilmente ciò che viene detto”. Questo era importante affinché le persone potessero capire che diavolo stesse dicendo il sacerdote (sacerdote: prete (cattolico) - priest). La predica era, in un certo senso, la parte più importante della messa in cui i fedeli ricevevano dei consigli morali e di comportamento. Era quindi importante che le persone capissero almeno quella parte della messa. Il resto della messa è rimasto in latino fino al 1965, pensate.
Il concilio di Tours è in qualche modo l’”atto di nascita delle lingue romanze”, ma in quale anno nasce la lingua italiana? Non è una domanda di facile risposta.
Siamo in possesso di diverse testimonianze (testimonianza: prova, dimostrazione (in senso figurato) - proof, evidence) scritte che risalgono all’Alto medioevo e agli inizi del Basso Medioevo, quindi dopo l’anno 1000, documenti che confermano due cose: la prima è che la lingua parlata dal popolo era qualcosa di diverso dal latino e la seconda è che, in alcuni casi, non sempre, chi scriveva aveva consapevolezza (consapevolezza: coscienza (da “consapevole”) - awareness) di ciò, c’era quindi una “coscienza linguistica”. Se abbiamo motivo di pensare che l’autore di un documento lo abbia scritto in volgare di proposito (di proposito: volontariamente, intenzionalmente - on purpose, intentionally) allora possiamo parlare di “coscienza linguistica” e di “intenzionalità” nel preferire il volgare al latino (che per diversi secoli dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente è rimasta l’unica lingua in cui abitualmente si scriveva). Come vedremo ci sono casi di autori che, si ipotizza, pensavano di star scrivendo in latino, senza rendersi in realtà conto del fatto che il proprio latino fosse molto scorretto e distante dal latino classico e per molti versi (per molti versi: per molti aspetti - in many ways, in many respects) simile alla lingua volgare.
Ed è questo il caso del primissimo documento che è giunto a noi. A proposito, se vi interessa vedere le immagini dei documenti e delle iscrizioni di cui parleremo le potrete vedere seguendo il link nella descrizione di questo episodio che vi porterà al mio sito.
L'indovinello veronese
Sto parlando del cosidetto “indovinello veronese”. Un indovinello (indovinello: enigma verbale da risolvere (da “indovinare” = to guess) - riddle) sarebbe un breve enigma in versi in cui bisogna, appunto, “indovinare” di che si sta parlando: un oggetto, un animale, una persona. L’indovinello veronese fu scoperto nel 1924 nella Biblioteca Capitolare di Verona su un manoscritto datato all’inizio del VIII secolo, scritto in Spagna e giunto a Verona non molto tempo dopo. Il manoscritto era in latino ma al margine superiore della pagina furono aggiunte successivamente alla scrittura del codice due brevi note, probabilmente proprio per mano di una persona di Verona: la prima, che è l’indovinello vero e proprio, in volgare , la seconda in latino corretto. Vediamo l’indovinello originale. L’indovinello è il seguente:
“Se pareba boves
Alba pratalia aràba
Et albo versorio teneba
Et negro semen seminaba”
Come forse avete notato è un indovinello che ha un suono piuttosto latino e non ci sembra poi così tanto italiano. Andiamo ad analizzare verso per verso.
Se pareba boves – spingeva avanti i buoi (o secondo altre interpetazioni “I buoi apparivano”). Cosa sono i buoi? Un bue (bue: maschio castrato del toro addomesticato - ox) (al plurale buoi) è un animale, il maschio castrato del toro addomesticato. Pensate anche alla parola “bovino”, che deriva proprio da “bovem” in latino. I buoi tradizionalmente venivano impiegati come animali da soma (animale da soma: animale da lavoro - beast of burden), cioè animali da lavoro, per trasportare materiali, trainare macchine, come per esempio l’aratro (aratro: macchina agricola - plow), con cui si aravano i campi, ovvero si preparava il terreno per la sua successiva lavorazione.
Torniamo a noi: “se pareba boves”, “spingeva avanti i buoi” (ancora oggi a quanto pare in veneto “parar” significa spingere), oppure secondo un’altra versione “i buoi apparivano”, che sarebbe da interpretare come “ecco i buoi”, una formula impiegata a quanto pare spesso proprio negli indovinelli. Proseguiamo.
alba pratalia aràba – arava bianchi prati – arava, “arare” significa come ho detto un attimo fa lavorare con l’aratro, preparare il terreno per la nuova coltivazione. Notiamo l’aggettivo “alba”, da “albus” in latino che significava “bianco”. “Bianco” è una di quelle parole germaniche che sono entrate in italiano (e in tante lingue romanze), che probabilmente non era ancora impiegata ai tempi dell’autore di questo indovinello. Quindi: spingeva avanti i buoi, arava i bianchi prati (prato: terreno coperto d’erba - lawn, field, meadow). Bianchi prati?! Ma voi conoscete prati bianchi?
et albo versorio teneba – teneva un bianco aratro, o in italiano diremmo “reggeva”, quindi “teneva con le mani”.
et negro semen seminaba – e un nero seme seminava.
Ricapitolando: l’oggetto dell’indovinello spingeva (forse) dei buoi, arava bianchi prati, reggeva un bianco aratro e seminava un seme nero. Qualche idea? Che cosa può essere? Probabilmente nessuno di voi ha indovinato, ma la risposta è… uno scrittore! Sì, lo scrittore viene paragonato a una persona che spinge avanti i buoi (che sarebbero le sue dita), ara prati bianchi (ovvero il foglio bianco della pergamena (pergamena: pelle trattata su cui si scrive - parchment) su cui scrive, che “ara” metaforicamente), regge un aratro bianco (la penna d’oca, che era bianca) e semina un seme nero (ovvero l’inchiostro nero della penna).
Come dicevamo prima, benché la lingua sia piuttosto latina per molti aspetti contiene comunque alcuni tratti marcatamente volgari. Per esempio, in latino per indicare l’oggetto diretto diremmo “nigrum”, non “negro” (abbiamo visto nello scorso episodio che i casi latini nel corso dei secoli sono scomparsi); i verbi all’imperfetto avrebbero avuto una -t (quindi “arabat”, “tenebat”, “seminabat”) che qui è scomparsa; al posto di “se” avremmo avuto “sibi”.
Questo è un testo piuttosto controverso perché, come dicevo prima, non possiamo essere sicuri dell’intenzionalità e della consapevolezza dello scrivente (o scrittore) di scrivere in volgare anziché in latino. Colui o colei che scriveva sapeva di star scrivendo in volgare o semi-volgare? Era una scelta voluta? Oppure pensava di star scrivendo in latino, un latino che però evidentemente non padroneggiava molto bene? E come possiamo chiamare questa lingua? Latino scorretto, volgare, semivolgare, proto-italiano? La mancanza di risposte certe a queste domande rende difficile attribuire a questo testo il titolo di “primo documento della lingua italiana”. Quindi proseguiamo, passiamo al prossimo documento e vediamo se troviamo un candidato più adatto.
Graffito della catacomba di Commodilla
Il prossimo documento che esamineremo è il graffito della catacomba di Commodilla a Roma.
A proposito, sapevate che la parola “graffiti”, presente in tante lingue, deriva dall’italiano? Nello specifico dal verbo “graffiare” (graffiare: lacerare con le unghie - to scratch), quello che, per esempio, può farvi un gatto se gli date fastidio. Ecco, questa catacomba fu impiegata come luogo di culto (luogo di culto: luogo sacro per una religione - place of worship) per alcuni secoli e conteneva i corpi di due santi, Felice e Adàutto (si, si chiama proprio così, Adàutto). Sullo stucco di una cornice di un affresco è presente un’iscrizione che risale al periodo tra il VI e l’VIII secolo.
L’iscrizione recita:
“Non dicere ille secrita abboce”,
che possiamo tradurre come “Non dire i segreti a voce alta”.
I segreti sarebbero in realtà le orazioni (orazione: preghiera - oration, prayers) egrete della messa: l’autore era probabilmente un prete che invitava i suoi colleghi a recitare a voce bassa il Canone della messa, secondo un’usanza introdotta ai tempi di Carlo Magno nell’VIII secolo, il che potrebbe aiutarci a datare l’iscrizione in un periodo successivo all’VIII secolo, perché prima quella cosa non si faceva.
Anche nel caso dell’iscrizione nella catacomba di Commodilla è difficile affermare con certezza che ci fosse la consapevolezza da parte dell’ autore di star scrivendo in una lingua volgareggiante (il suffisso “eggiante” è come in inglese -ish, -esque, -like, quindi “simile al volgare”) simile al volgare; in ogni caso è interessante osservare le caratteristiche tipiche del parlato. Andiamo ad analizzarle.
In questa iscrizione notiamo l’uso di “Ille” (Ille secrita, i segreti) che non significa tanto “quei segreti” (significato che avrebbe avuto in latino) ma piuttosto “i segreti”. Infatti il pronome dimostrativo latino “ille” (“quello ” in italiano) era già mutato e la sua funzione si era ridotta a quella di semplice articolo. Proprio da “ille” abbiamo ottenuto nelle lingue romanze i nostri articoli: “il” in italiano, “el in spagnolo”, “le” in francese e via dicendo (e via dicendo: e così via, ecc. - and so on and so forth)
Interessante anche “ABBOCE”, che significa “a voce” alta. Ecco, questo rappresenta un fenomeno che esiste ancora oggi, chiamato raddoppiamento fonosintattico. Non vi lasciate spaventare dal termine, non è così difficile, ve lo prometto. Nei dialetti italiani centro-meridionali, tra cui il fiorentino, quindi anche in italiano standard, quando abbiamo alcuni costrutti (costrutto: costruzione, struttura sintattica - construction, construct) come, per esempio, preposizione + un’altra parola (come in questo caso, “a voce”) la prima consonante della seconda parola (la “v” di “voce” nel nostro caso) si pronuncia doppia (o geminata direbbero i linguisti). Per questo anche in italiano moderno standard si dice “avvoce” e non “a voce” (pronununciato senza raddoppiamento della v).
Questo fenomeno fonetico si può individuare in tante parole italiane in cui questa pronuncia è rispecchiata (rispecchiata: riflessa (da “rispecchiare”, che deriva da “specchio” - reflected) proprio dalla grafia, dal modo in cui si scrive: pensate a “davvero” (da + vero), “affatto” (a + fatto), “eppure” (e + pure) e tantissime altre. Questa pronuncia è tipica, come ho detto (“èttipica” come “hoddetto”), di tanti dialetti centro-meridionali e del toscano, dialetto (o volgare) da cui, come sapete, deriva l’italiano. Se andate al nord questo fenomeno di norma lo dovreste sentire molto di meno (in base alle origini geografiche della persona con cui state parlando e altri fattori), ma visto che io adotto una pronuncia “standard” per registrare questo podcast dico proprio “avvoce” e non “a voce”.
Bene, questo raddoppiamento fonosintattico è visibile in “abboce”. Ma perché esiste questo fenomeno? Beh, perché in latino non si diceva “a” ma “ad”, quindi sarebbe stato qualcosa come “ad vocem”. Perdendo la “d” rimane uno spazio che viene riempito (riempire: mettere qualcosa in uno spazio vuoto - to fill in) da una pausa, che, se ci pensate, è proprio la doppia, che rende la prima “sillaba” (se consideriamo “ad vocem” di fatto come un’unica parola, un unico composto) lunga quanto lo era in origine. “Ad vocem” / “abboce”. La durata è la stessa. Lo stesso fenomeno avviene con altre parole, come per esempio “chi” (“chissei”), “ho” (“hoddetto”), “è” (èvvenuto), ed altre.
La cosa interessante è che, se andate a vedere l’immagine del graffito, la seconda “b” è stata aggiunta dopo, perché è più piccola ed è stata infilata (infilare:
inserire, far entrare (qui) - to insert, to squeeze sth in) tra la prima “b” e la “o” in un secondo momento. Perché l’autore ha fatto ciò? Probabilmente perché ha pensato (sentite, “happensato”) che la grafia “abboce” rispecchiasse maggiormente la pronuncia vera e propria.
Ah, e per quanto riguarda l’uso della “b” al posto della “v”, “questo è un esampio di “betacismo”, fenomeno che porta alla confusione tra “v” e “b” comune in varie lingue romanze, che tra l’altro possiamo osservare anche in spagnolo dove addirittura la “b” e la “v” si sono fuse completamente in un unico fonema indicato da due lettere diverse. In italiano pensate a un verbo come “dovere”, che ha forme come “devo” con la v e “dobbiamo” con la b.
Placito capuano (placiti cassinesi o campani)
Proseguiamo il nostro viaggio tra i documenti più antichi in lingua volgare e arriviamo a quello che da molti storici della lingua italiana è considerato il primo vero documento in italiano, in un certo senso l’attestato di nascita (attestato di nascita: documento che attesta la nascita di una persona (qui, figurativamente, di una lingua) - birth certificate) della lingua italiana. Sto parlando del cosiddetto “Placito Capuano”.
Prima di tutto, che cos’è un “placito”? Nel medioevo un “placito” era una sentenza (sentenza: verdetto, giudizio (nel diritto) - judgement, verdict, sentence) data da un’autorità giudiziaria e, per estensione, anche il documento sul quale tale sentenza era contenuta. Il “Placito Capuano” è proprio questo, un verbale giudiziario, scritto su un foglio di pergamena. L’aggettivo “capuano” fa riferimento a “Capua”, località nella regione della Campania in cui si è svolto il processo. Il Placito Capuano è da considerare insieme ad altri tre documenti redatti in un’area geografica e in un periodo temporale circoscritti, i cosiddetti Placiti Cassinesi o Placiti Campani che sono molto simili tra di loro.
Il primo di questi è come detto, il “Placito capuano”. È importante principalmente per due motivi. Il primo è che sappiamo con certezza la datazione, l’anno in cui è stato redatto il documento, ovvero l’anno 960. Il secondo motivo è che finalmente siamo certi dell’intenzionalità dell’autore di scrivere in volgare, in quanto il resto del documento è in latino e il volgare viene impiegato solo allo scopo di riportare una formula recitata da tre testimoni. Si tratta quindi di una citazione intenzionalmente riportata in volgare e non tradotta in latino. In realtà è probabile che ciò che viene detto dai testimoni in volgare non sia molto spontaneo e naturale: si trattava in fondo di una formula giuridica codificata e rituale, che ricorre in maniera molto simile negli altri tre documenti che insieme al “Placito Capuano” costituiscono il gruppo dei Placiti cassinesi, che ho menzionato poco fa.
“Il Placito capuano” è un verbale (verbale: documento, resoconto scritto di un discorso orale - report) relativo, appunto, a una causa (causa (giudiziaria):
controversia giudiziaria - case, lawsuit) giudiziaria. Le parti in causa erano il potentissimo abate (abate: capo di una comunità di monaci abbot) (cioè il capo, di fatto) del monastero di Montecassino (ricordate, “placiti cassinesi”) e un tale Rodelgrimo di Aquino. L’abbazia si trova nella regione che oggi conosciamo come Lazio ma che a quel tempo era dipendente dal principato di Capua che apparteneva ai Longobardi. Ve li ricordate? Ne abbiamo parlato nello scorso episodio, sono una delle tre popolazioni germaniche che hanno invaso l’Italia (gli altri erano i Goti e i Franchi). Tale Rodelgrimo rivendicava (rivendicare: esigere qualcosa che si ritiene proprio - to lay clam to) il possesso di alcune terre, sostenendo che appartenessero a lui e non al monastero, che secondo lui se n’era appropriato abusivamente. L’abate di Montecassino si difendeva invocando il diritto, che esiste ancora oggi, di usucapione. Vale a dire che siccome il monastero occupava quelle terre già da trent’anni oramai per diritto gli appartenevano. Questa almeno era l’opinione dell’abate.
L’abate riuscì a portare con sé ben tre testimoni, che il giorno del processo a Capua recitano ad uno ad uno la formula che ascolteremo tra poco, dando quindi ragione all’abate. Dicono quindi che è vero che il monastero occupa quelle terre già da trent’anni, l’abate non sta mentendo. Rodelgrimo quindi perde la causa e l’abate ne esce vincitore.
Ma più che il fatto giudiziario, di poco conto, ciò che ci interessa è che la formula sia stata riportata sul verbale in volgare e non in latino, il che è una scelta molto inconsueta (inconsueto: inusuale, insolito - unusual), inusuale. Solitamente si traducevano le formule testimoniali dal volgare al latino, mai prima del Placito capuano un notaio (notaio: professionista che, con funzioni di pubblico ufficiale, si occupa di ricevere, redigere, autenticare, copiare, riprodurre e conservare atti giuridici - notary) (cioè la persona che si occupa di redigere il verbale) aveva codificato la lingua volgare mettendola per iscritto. Si è ipotizzato che l’utilizzo del volgare in realtà fosse dovuto al fatto che l’abate voleva farsi pubblicità di fronte alle persone presenti al giudizio e legittimare la proprietà di quei beni che qualcuno in futuro gli avrebbe potuto contestare (contestare: andare contro, non accettare la legittimità - to question, to challenge) (anche gli altri placiti, tra l’altro, sono documenti relativi a contese che riguardano il possesso di terre). Quindi è possibile che l’abate fosse in realtà d’accordo con Rodelgrimo e che questo non fosse in realtà un vero avversario.
Comunque, vediamo ora la formula:
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)cti Benedicti.
Che possiamo tradurre:
“So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, per trent’anni le ha avute in possesso la parte di San Benedetto”, cioè la parte in causa (parte in causa: esser parte in causa - be party to, be an interested party to) rappresentata dall’abate.
“San Benedetto” fa riferimento al monastero di Montecassino, quello dell’abate, che era appunto di tipo benedettino, anzi, era il primo monastero benedettino in assoluto. L’ordine di San Benedetto era un importante congregazione monastica fondata qualche secolo prima, attorno al 529.
Dal punto di vista linguistico si è discusso sulla prima parola, “sao”, che corrisponde al nostro “so” e deriva dal latino “sapio” (pensate al verbo italiano “sapere”). I linguisti si sono interrogati sul perché non sia stata impiegata la forma “saccio”, comune ancora oggi nei dialetti di quelle zone, come il napoletano. Perché “sao” e non “saccio”? Non possiamo saperlo con certezza. Forse si tratta di un’influenza settentrionale (quindi del Nord Italia), forse di un tentativo di superare il dialetto da parte dello scrivente. L’ipotesi però più probabile è che in realtà “sao” fosse una forma presente anche nell’Italia meridionale che poi è stata soppiantata (soppiantare:
sostituire, rimpiazzare - to replace, to supplant) da “saccio”.
Tipicamente meridionale è invece la forma “kelle” di “kelle terre” (ovvero “quelle terre”), che sentirete ancora oggi se avrete modo di ascoltare dialetti del sud.
L'iscrizione dell'affresco della basilica di San Clemente
Giungiamo così all’ultimo testo antico che analizzeremo quest’oggi, ovvero l’iscrizione dell’affresco della basilica di San Clemente. Nella stessa città (ovvero Roma) del graffito della catacomba di Commodilla, che abbiamo analizzato poco fa, è stata ritrovata un’altra iscrizione, questa volta contenuta in un affresco sul muro della chiesa di San Clemente a Roma. L’iscrizione è stata datata verso la fine dell’XI (undicesimo) secolo, quindi già in periodo di Basso medioevo.
L’affresco è molto interessante, innanzitutto perché rappresenta un primitivo esempio di fumetto (fumetto: storia costituita da vignette - comic strip), con dei personaggi e delle didascalie (didascalìa: breve descrizione - captions), cioè delle scritte che probabilmente (ma non ne siamo certi in realtà) stanno a indicare le battute pronunciate dai personaggi, proprio come nei fumetti.
L’affresco è una raffigurazione (raffigurazione: disegno - depiction) di un fatto miracoloso compiuto da San Clemente, che era tra l’altro il papa, il quarto papa della Chiesa Cattolica secondo la tradizione, Papa Clemente I.
Questa è la storia: un patrizio romano (quindi un uomo ricco) di nome Sisinnio è convinto che Clemente voglia sottrargli (sottrarre: rubare / togliereto steal, to snatch / to subtract) la moglie che era diventata cristiana. Sisinnio è convinto che Clemente abbia utilizzato le arti magiche per convertirla. Ordina quindi ai suoi servi Gosmario, Albertello e Carboncello di arrestarlo e di martirizzarlo, quindi torturarlo. L’affresco mostra Sisinnio che ordina ai suoi servi di trascinare Clemente, ma avviene il miracolo: Clemente è libero e al suo posto compare una colonna. Per questo vediamo due dei tre servi trascinare una pesante colonna e il terzo spingerla con un palo, sotto l’incitamento di Sisinnio.
Vediamo ora le didascalie dell’affresco:
FILI DE LE PUTE, TRAITE – ovvero “figli di puttana, tirate” e questo è Sisinnio che parla. Notiamo l’impiego di turpiloquio (turpiloquio: linguaggio osceno, volgare - profanity, obscenity), ovvero di una parolaccia.
GOSMARI, ALBERTEL, TRAITE – Gosmari, Albertel, tirate. Questi sono i nomi dei due servi che trascinano la colonna, il terzo era dietro con il palo, ricordate?.
FALITE DERETO COLO PALO, CARVONCELLE. Fatti dietro a lui con il palo, ovvero spingilo da dietro con il palo, Carboncello. Sisinnio si rivolge al terzo schiavo che vediamo dietro alla colonna che la spinge con un palo al posto di tirarla da davanti. Notiamo “DERETO” che deriva da “DE RETRO” in latino. In italiano abbiamo “dietro”. Inoltre “carvoncelle” al posto di “carboncello” è un altro esempio di betacismo, di confusione tra “b” e “v”.
Un’altra iscrizione in latino spiega l’avvenimento: “Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis”, ovvero “Per la durezza del vostro cuore avete meritato di trascinar sassi”. Probabilmente, ma non ne siamo certi, è lo stesso santo a pronunciare queste parole.
Possiamo osservare anche qui una scelta di uso del volgare intenzionale. Il patrizio Sisinnio e i suoi servi parlano in volgare, mentre la condanna è in latino, considerata una lingua più solenne. Il contrasto tra latino nobile e volgare plebeo (plebeo: relativo alla plebe, alle persone comuni - plebeian, common) sicuramente è una scelta stilistica intenzionale.
Questi sono i quattro documenti considerati più importanti dai linguisti nella storia della lingua italiana, ma ce ne sono in realtà altri che per non rendere questo episodio troppo lungo e noioso ho deciso di omettere. Vorrei comunque sottolineare che l’indovinello veronese, l’iscrizione nella basilica di Commodilla, il placito Capuano e i placiti cassinesi in generale e l’iscrizione nella basilica di San Clemente sono esempi piuttosto modesti di lingua volgare e lo stesso si può dire dei testi di cui non vi ho parlato. Non si tratta di certo di alta letteratura, ma più che altro di documenti pratici oppure opere d’arte di poco conto (di poco conto: insignificante, poco importante - insignificant, of little value), che impallidiscono (impallidire: diventare pallido - to pale) di fronte alle letterature in volgare che si stavano già sviluppando nella vicina Francia. Ciò che però possiamo osservare è che emerge un quadro dialettale o volgare in Italia. È però solamente a partire dal Duecento (cioè il XIII secolo) che abbiamo i primi esempi di letteratura in italiano, quindi qualcosa di un pochino più interessante e significativo. Ma di questo parleremo nel prossimo episodio.
Vi ringrazio per essere arrivati fin qui, spero che l’episodio sia stato di vostro gradimento (essere di mio/tuo/suo/ecc. gradimento: mi/ti/gli/le piace - to be of one’s liking) e che abbiate imparato qualcosa. Io vi ricordo che se volete sostenere il progetto potete farlo iscrivendovi al Podcast Italiano Club sul sito Patreon, dove potrete ottenere materiali bonus (come un podcast esclusivo), la trascrizione dei miei video su YouTube e tanto altro, tra cui anche l’accesso a un gruppo Telegram dove potete chiacchierare con me (se ve ne frega qualcosa, ovviamente).
Grazie a tutti i membri del Club e un grazie enorme anche alle persone che mi hanno fatto delle donazioni su PayPal. Oggi voglio ringraziare Wine Tours Paris (si chiama così), Luis, Richard e Marisa. Un grazie di cuore a tutti voi e se volete sostenere questo progetto e aiutarmi a pagare l’affitto vi ricordo che anche voi potete fare una donazione. Ve ne sarei molto molto grato. Un terzo modo di sostenere il podcast è lasciando una recensione su Apple Podcasts. Un tempo ve lo ricordavo sempre, mentre ora non lo faccio molto spesso, ma se volete aiutarmi a far salire questo podcast nei ranking, nelle classifiche lasciate una recensione appunto su Apple Podcasts.
Detto questo io vi saluto, ci sentiamo nel prossimo episodio. Alla prossima! Ciao