I mestieri dell’Italia passata
In questo episodio di livello intermedio, parliamo dei mestieri tradizionali italiani ormai scomparsi o in via d'estinzione, che ci raccontano com'era l'Italia prima del boom economico.
Se pensiamo a come vivevano i nostri genitori, nonni e bisnonni in Italia (ma magari anche nel tuo Paese), ci rendiamo conto di quante cose siano cambiate in cinquanta o cent’anni. L’Italia, prima del miracolo economico (quindi, essenzialmente, quel periodo che va tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso) era un Paese povero, arretrato e prevalentemente agricolo, con un’industria ancora poco sviluppata. Per fare un esempio, i supermercati, che oggi diamo per scontati, no? (Fanno parte dell’esperienza umana, almeno nel mondo sviluppato) Non esistevano. Il primo è arrivato in Italia, a Milano, nel 1957.
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Trascrizione interattiva dell'episodio
E, in un Paese molto diverso, anche i mestieri che facevano le persone erano diversi. Dovessimo tornare indietro, di cent’anni o più, troveremmo un Paese in cui la maggior parte delle persone lavorava nei campi, oppure nelle fabbriche (anche se l’industrializzazione, in Italia è arrivata con un certo ritardo rispetto agli altri Paesi europei). Ma c’erano anche altri mestieri tradizionali che oggi ci sembrano curiosi, visti dalla prospettiva di una persona del 2025, mestieri che oggi sono di fatto spariti, scomparsi, non esistono più perché sono stati, di fatto, resi obsoleti dal progresso e dall’industrializzazione, mentre altri sopravvivono a fatica, magari per tradizione e folklore.
In questo episodio ti voglio raccontare alcuni di questi lavori del passato, specie alcuni che ritengo particolarmente curiosi e interessanti, perché ci raccontano qualcosa su com’era l’Italia del passato, l’Italia, in buona parte, precedente al boom economico che, come dicevo, è stato davvero un momento di svolta incredibile, un vero e proprio spartiacque nella storia del nostro Paese.
Io sono Davide e questo è Podcast Italiano, un podcast per chi vuole imparare l’italiano attraverso contenuti interessanti. Prima di iniziare, ti ricordo che questo episodio è accompagnato da una trascrizione e da un glossario gratuiti che puoi trovare sul mio sito, podcastitaliano.com. Ma ti lascio il link nelle note dell'episodio. La trascrizione è davvero uno strumento importante, perché ti aiuta a ottenere il massimo dall'episodio. Io consiglio di leggere e ascoltare allo stesso tempo, se non riesci a capire, diciamo, il 60, 70% di quello che dico. Ma anche di usare il glossario dopo aver ascoltato, per rivedere le parole che magari non hai capito o che vorresti memorizzare. Comunque, il link è nelle note dell’episodio, lo puoi trovare nell'app che stai usando per ascoltarmi, come Spotify, o Apple Podcast, o qualsiasi app di podcast.
Bene, il primo mestiere di cui ti voglio parlare è quello dell’arrotino. Il verbo stesso “arrotare”, che significa “affilare”, ci racconta il mestiere dell’arrotino. L’arrotino era una figura indispensabile nelle città e nei piccoli paesi, e lo è stato fino alla metà del Novecento. Il suo compito era, appunto, quello di affilare coltelli da cucina, o forbici da sarta e vari strumenti da taglio, utilizzati sia in casa che nelle botteghe degli artigiani. “Affilare” , a proposito, significa “rendere la lama di uno strumento più tagliente, più affilata”, appunto. Si parla, infatti, del “filo” di una lama, da cui, appunto, affilare. Ecco. Ma si dice anche “arrotare”, che ha lo stesso significato. E l'arrotino girava per le strade con una bicicletta o con un carretto su cui era montata una mola, cioè lo strumento che serviva per affilare le lame. Questa mola girava come una ruota e da qui il verbo “arrotare”, appunto. Il mestiere dell’arrotino non era semplice: col sole o con la pioggia, era sempre in cammino, vagava da un paesino all'altro, in cerca di lavoro, annunciando i propri servizi alla gente che passeggiava o che era affacciata sul balcone. E, per annunciarsi, gridava una frase famosa, iconica, che ancora viene usata oggi da quei pochi arrotini rimasti, cioè “Donne, è arrivato l’arrotino!”. E, se ti stai chiedendo perché l’arrotino parlasse direttamente e solo alle donne, la risposta è semplice: all’epoca, in una società molto diversa dalla nostra, si credeva che il compito di organizzare e prendersi cura della casa, e quindi anche degli strumenti da cucina, spettasse esclusivamente alle donne, quindi considerate le “custodi” della cucina e della casa, in generale. Comunque, con l’arrivo dei coltelli in acciaio inox, cioè inossidabile, e delle affilatrici elettriche, (ma anche, più in generale, dei supermercati, dove uno può andare a comprare un coltello nuovo se quello vecchio non funziona più bene), beh… la figura dell’arrotino ha perso la sua rilevanza oggi. Ed è, quindi, sicuramente un mestiere in via d’estinzione, ma non ancora del tutto estinto: oggi gli arrotini girano ancora, raramente, ma girano ancora per le strade con un furgone sormontato da altoparlanti che riproducono il loro slogan famosissimo che, tra l’altro, è lo stesso per tutti. Cioè tutti gli arrotini usano la stessa registrazione da anni!
L’arrotino faceva spesso anche l’ombrellaio, cioè la persona che riparava gli ombrelli rotti o danneggiati, sostituendo le stecche e i tessuti strappati degli ombrelli. Poi, con la diffusione degli ombrelli economici, che si pagano davvero a poco prezzo e si rompono, anche, dopo pochi utilizzi, appena c’è un po’ di vento si rompono, anche questo mestiere dell’ombrellaio è quasi scomparso. Mestieri come l’arrotino e l’ombrellaio sono, se vogliamo, il simbolo di un’epoca in cui le cose, quando si rompevano, si aggiustavano, si riparavano, e non si buttavano via, perché… perché sarebbe stato un lusso. Comunque, come ho già menzionato, può capitare di vedere ancora oggi arrotini e ombrellai cercarsi lavoro per le strade di alcune città, fra cui Roma, come ci segnala la nostra corrispondente Irene, ma anche qui da me, in provincia di Torino, a volte capita di sentire l’arrotino che passa, annunciato dall’ altoparlante del suo furgone. Ecco, mi è successo, tra l’altro, pochi giorni fa**. A proposito**, ti voglio far sentire l’annuncio dell’arrotino:
“È arrivato l'arrotino: arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio: aggiustiamo gli ombrelli! L'ombrellaio, donne! Ripariamo cucine a gas: abbiamo i pezzi di ricambio per le cucine a gas. Se avete perdite di gas, noi le aggiustiamo. Se la cucina fa fumo, noi togliamo il fumo della vostra cucina a gas.”
Dopo aver parlato dell'ombrellaio, diamo il via a una lunga lista di mestieri che terminano con il suffisso -aio. Devi sapere che -aio si usa spesso per riferirsi a mestieri. Mi viene in mente, per esempio, il giornalaio (altro mestiere di cui, forse, dovremmo parlare perché si sta estinguendo) comunque, colui che vende giornali. Oppure, un mestiere che esiste ancora oggi, anche se forse non va più così di moda, è quello dell’orologiaio che si occupa di riparare orologi.
Bene, ti voglio dunque parlare del carbonaio, cioè colui, la persona che produceva carbone partendo dalla legna. Il processo è interessante: quando la legna viene bruciata lentamente, in assenza di ossigeno, si trasforma, praticamente, in carbone vegetale. Bisogna, però, fare attenzione che non si trasformi in cenere, che non si incenerisca: ecco perché il lavoro del carbonaio era molto faticoso. Era, infatti, necessario sorvegliare il fuoco giorno e notte, per diversi giorni, per evitare che il fuoco, la combustione, diventasse troppo intensa e incenerisse la legna. E questo non era l’unico sacrificio richiesto: i carbonai trascorrevano lunghi periodi in montagna, dalla primavera all’autunno, per tagliare la legna e costruire queste carbonaie (cioè, praticamente, delle cataste di legna, dei mucchi di legna, costruiti con una tecnica particolare, che erano costruiti proprio all’interno dei boschi). Queste cataste venivano coperte di terra e foglie e lasciate bruciare lentamente, per giorni, dall’interno, in un processo di combustione controllata, appunto, che aveva come risultato quello di produrre il carbone. Probabilmente l’ho detta male ma, in sostanza, questo era il processo, per come lo posso capire io.
Il mestiere di carbonaio era molto diffuso fino alla metà del secolo scorso, quindi fino a metà del 900. Oggi non è completamente scomparso, infatti, a quanto pare, ci sono ancora carbonai che operano soprattutto in Calabria; poi, con la diffusione del gas e dell’elettricità per il riscaldamento e per la cucina, quest’attività è diventata obsoleta. Oggi il carbone si usa principalmente per fare i barbecue (o barbecue, in base alla pronuncia che adottiamo) che si chiamano anche “grigliate”, in italiano, oppure per alimentare i fuochi dei forni a legna nelle pizzerie. Quindi, la persona “comune” non ha un particolare fabbisogno di carbone… non è un materiale di cui ha una grande necessità, diciamo così. Però, quello del carbonaio, è stato un mestiere molto importante per l’Italia, in particolare per il Nord, dove il clima è più freddo.
Passiamo al prossimo mestiere: il cordaio, anche detto “funaiolo”, ovvero colui che costruiva le corde, le funi, che servivano ai contadini per legare i fasci di fieno, grano e paglia fra loro. E non solo, perché si sa che le corde hanno mille usi diversi. Il cordaio fabbricava corde di lino o altre fibre naturali come la canapa, che veniva raccolta, fatta essiccare, macerata nell’acqua e poi scomposta, ovvero divisa in tanti sottili filamenti, come dei capelli, che venivano fatti asciugare al sole per poi essere uniti e filati, ****così da diventare una corda. Questo mestiere era fondamentale quando le corde erano fatte a mano, con fibre naturali. Poi, con l’avvento delle fibre sintetiche e delle macchine per la produzione industriale, anche la figura del cordaio ha perso importanza fino a sparire, piano piano. Il mestiere del cordaio ci ricorda anche un po’ quello della filatrice, quella persona che trasformava le fibre naturali come lana, lino, e cotone, in filati da tessere, materiali che potevano essere, appunto, tessuti. Questo mestiere era essenziale prima della rivoluzione industriale, prima che arrivassero le fabbriche tessili; poi, ovviamente, anche lui ha perso la sua centralità, rimanendo però una pratica artigianale, come la maggior parte dei mestieri che abbiamo menzionato finora.
In seguito abbiamo il lattaio, cioè colui che consegnava il latte fresco, porta a porta (cioè casa per casa), ogni mattina. La figura del lattaio è rimasta, credo, fino agli anni ‘50 o ‘60. Adesso non so dirlo con certezza, quindi prendete con le pinze queste informazioni, però… i nostri nonni, di solito, parlavano ancora del lattaio. Quindi suppongo che, fino all’avvento dei supermercati, i lattai fossero ancora molto diffusi nelle città. E anche il lavoro del lattaio non era facile: col sole e con la pioggia, arrivava nei paesi e nelle città alle prime ore del mattino, di solito in bicicletta, sulla quale erano sistemati dei grossi contenitori di alluminio pieni di latte appena munto, latte fresco. All’epoca il latte si vendeva grezzo, non sterilizzato, non pastorizzato, perché proveniva direttamente dalla stalla, cioè da dove si trovano le mucche. Quindi, le “donne di casa” erano costrette a bollirlo, ok? Farlo bollire, anche più volte, per renderlo bevibile. Alcuni lattai, pensa, giravano per strada direttamente con i loro greggi di mucche o capre e, su richiesta, mungevano sul posto gli animali per poi riempire le bottiglie (in vetro, ovviamente, non in plastica) dei clienti. Tra l’altro una cosa affascinante è proprio questa: che il lattaio, passando di casa in casa, recuperava le bottiglie di vetro vuote. Questa, dal mio punto di vista, sarebbe una pratica ecologica che avrebbe senso riportare in vita, riportare in auge, come diciamo anche, in italiano.
Con la diffusione dei supermercati e del latte a lunga conservazione la figura del lattaio è quasi completamente scomparsa, anche se, dove abito io, al Nord, esistono direi da una quindicina d’anni, delle casette, dei chioschi, che, di fatto, sono dei distributori automatici di latte crudo, distributori che vengono gestiti direttamente dagli allevatori. Ora… non so quanto siano diffusi nel resto d’Italia; facendo una rapida ricerca mi pare di capire che siano soprattutto una cosa comune qui al Nord e soprattutto nelle provincie di Milano e di Torino. Io non l’ho mai preso, in realtà, il latte da questi distributori, ammetto, comunque è latte crudo, che va sempre bollito (come si faceva un tempo) e consumato entro poco tempo, a meno che uno non sia interessato a prendersi malattie… “poco simpatiche”, diciamo così.
Andando avanti, possiamo menzionare lo zoccolaio, cioè colui che produceva, fabbricava, gli zoccoli in legno, un tempo molto diffusi, soprattutto nelle campagne. Gli zoccoli erano una calzatura (una calzatura è qualcosa che si mette ai piedi, no? Questo è il termine tecnico) che era apparentemente, di facile realizzazione. Perché, tradizionalmente, erano fabbricati da un unico pezzo di legno, di ontano o pioppo, un legno resistente ed elastico, che è anche ottimo per essere intagliato. Il calzolaio lavorava al panchetto, una panca in legno, su cui si sedeva e gestiva tutto il processo, che è un po’ troppo lungo e complicato da spiegare, non sono la persona giusta per farlo. Comunque si trovano molti video online, se ti interessa vedere come si fabbricavano gli zoccoli. In passato, gli zoccoli erano, di fatto, la calzatura più comune tra i contadini e le classi urbane meno abbienti. E furono anche una delle poche alternative all’andare in giro scalzi, almeno fino al secondo dopoguerra, quando la ripresa economica permise la diffusione delle scarpe. Ovviamente le scarpe esistevano già, da un sacco di tempo, però, appunto, erano un oggetto di lusso che le persone non potevano cambiare ogni… qualche mese, come facciamo oggi, che, magari… oggi abbiamo persino… collezioniamo scarpe, abbiamo decine di scarpe. Questo ci aiuta a capire quanto era differente la vita al tempo, dove un paio di scarpe era un lusso per la maggior parte delle persone e dei contadini, almeno. Poi, con l’evoluzione della moda e l’arrivo di materiali più leggeri e confortevoli, il mestiere dello zoccolaio è scomparso quasi del tutto, restando vivo solo in alcune zone dove gli zoccoli tradizionali sono ancora apprezzati.
E non è finita qui: perché, fra i mestieri antichi che presentano il suffisso -aio, abbiamo anche il selciaio, o anche selciaiolo o selciarolo, ovvero colui che costruiva il selciato, cioè praticamente il pavimento delle strade, la copertura delle strade. Il suo lavoro consisteva praticamente nel posare i ciottoli e le pietre per pavimentare strade e piazze. Se t’immagini un centro storico italiano tipico, probabilmente te lo immaginerai con quella tipica pavimentazione stradale formata da cubetti di pietra o, in alternativa, ciottoli (quindi pietre un po’ più piccole, un po’ più curve). Tra l’altro quei cubetti tipici vengono chiamati, di solito, “sampietrini”(è un termine che deriva da Piazza San Pietro a Roma, dove furono utilizzati per la prima volta, a quanto pare, nel XVI secolo) oppure anche “bolognini” che, in teoria, sarebbero più diffusi al Nord. Anche se io li ho sempre sentiti chiamare “sampietrini”, almeno qui a Torino. Non so in altre città.
Oggi, questo tipo di pavimentazione rimane comune, in Italia, almeno nei centri storici. Fuori dai centri storici, ovviamente, è più comune l’asfalto, ma non esiste più la figura del selciaio o del selciaiolo, perché della pavimentazione delle città si occupano operai edili generici o imprese specializzate, ma anche enti pubblici che si occupano di… di sistemare le strade.
Poi abbiamo anche il materassaio, colui che realizzava e imbottiva materassi con lana o crine (il crine sarebbe un materiale che può essere di origine animale o vegetale che si usava, appunto, per imbottire i materassi). Questo mestiere è sopravvissuto fino alla seconda metà degli anni settanta, in Italia, periodo in cui ancora si usavano i vecchi materassi imbottiti di lana. Oggi compriamo un materasso e lo usiamo finché non si rompe. Magari lo giriamo, in base alla stagione, per dormire sul lato giusto, cioè quello invernale o estivo; magari, ogni tanto, lo sbattiamo o lo disinfettiamo. Ma, in passato, i vecchi materassi imbottiti di lana, venivano lavati periodicamente. O meglio, venivano scuciti, veniva estratta la lana al loro interno, veniva lavata, stesa al sole ad asciugare, cardata (cioè districata, “pettinata”, diciamo così) ed poi veniva rimessa nel materasso. Quindi una pratica abbastanza laboriosa, che avveniva di solito nei mesi estivi, ed era… ed era il materassaio che doveva ridare forma ai materassi, doveva ricucirli e renderli piatti. Non era facile dare forma alla lana. Poi, come puoi ben immaginare, con la produzione industriale, l’avvento di materiali sintetici, e la diffusione dei materassi in gommapiuma o a molle, questo mestiere è praticamente scomparso, con rare eccezioni.
E poi c’era il lampionaio… ecco, questo è un mestiere interessante, che, a sentirlo oggi, può sembrare strano, può sembrare curioso. Oggi i lampioni, nelle strade, si accendono automaticamente, da soli, a una certa ora. Ma, fino alla prima metà del 900, esisteva una figura chiamata il “lampionaio”, che aveva il compito di andare in giro e accendere e spegnere i lampioni a gas delle strade, tutti i giorni. Era un lavoro che richiedeva precisione e puntualità, perché la città dipendeva dalla sua efficienza per avere luce nelle ore serali e notturne. Ovviamente con l’illuminazione elettrica automatica anche questo mestiere è diventato obsoleto, ma è resistito, appunto, fino agli anni ‘50, perché l’illuminazione elettrica non c’era ancora in tutta Italia.
Un altro mestiere che richiedeva puntualità era quello del campanaro, cioè colui che suonava manualmente le campane delle chiese, scandendo il tempo per la comunità. Campanaro, a proposito, ha questo suffisso -aro, che praticamente ha lo stesso significato di -aio; la cosa curiosa è che, di solito, il suffisso -aio è comune in Toscana ed è quindi, diciamo, il suffisso standard che si è diffuso un po’ nel resto d’Italia con la diffusione dell’italiano, ma ci sono parole che hanno anche -aro. E -aro è più tipico del centro Italia, di Roma in particolare, tanto che alcuni mestieri “moderni”, diciamo così, per esempio il kebabbaro, la persona che vende kebab, hanno proprio questo suffisso di origine romana -aro che, quindi, ha una certa vitalità, oggi. Comunque, tornando al nostro campanaro, anche questo con i sistemi elettronici e le campane automatizzate, è un mestiere che è praticamente scomparso, che resiste solo in poche chiese storiche, come la Torre degli Asinelli a Bologna, che ha ancora dei campanari che suonano secondo le antiche tradizioni, almeno in occasioni come Natale, Pasqua, e Capodanno. Quello del campanaro è un mestiere, tra l’altro, molto pericoloso, perché le campane sono oggetti enormi e pesanti, per cui è necessaria anche una certa forza fisica. Ma è anche un mestiere importante: infatti, in passato, i rintocchi delle campane erano fondamentali per scandire il tempo, scandire le giornate e la vita quotidiana delle comunità. Ed erano anche una sorta di sistema di comunicazione collettivo, che annunciava eventi religiosi, civili, e anche situazioni di emergenza.
Ora voglio parlare di un mestiere un po’ più artistico che in Italia ha una sua importanza culturale, che, a quanto pare, qualcuno chiama “presepista”. Non so se è un nome ufficiale ma l’ho trovato online. Praticamente, il presepista sarebbe l’artigiano, l’artista, specializzato nella creazione, nella realizzazione di presepi artigianali. Che cos’è un “presepe”, o un “presepio” (abbiamo queste due varianti)? È una raffigurazione artistica della Natività di Gesù, che è fatta con statue, con figure in miniatura o, addirittura, in alcuni casi, anche con personaggi viventi (questo è il caso dei “presepi viventi”, che esistono in alcune città italiane. E si allestiscono, chiaramente, durante il periodo di Natale: molte persone, persone religiose, realizzano il proprio presepio (o presepe) in casa, insieme all’albero di Natale. Il presepista, dunque, crea gli sfondi, le case, le statuette (quindi tutti i diversi mestieri che vediamo nel contesto del presepe), e poi gli animali, il cibo in miniatura ecc.
Sebbene il presepe sia ancora una tradizione viva in Italia, la produzione industriale di statuette e decorazioni in plastica e altri materiali ha ridotto il numero di artigiani specializzati. Tuttavia, a Napoli, è rimasto un mestiere tipico, storico e, lungo Via San Gregorio Armeno, si trovano ancora oggi le botteghe di questi maestri artigiani, che creano a mano statuine in terracotta o cartapesta. Se passi da Napoli, soprattutto durante il periodo di Natale, è una cosa che ti consiglio di andare a scoprire.
Prima di arrivare al gran finale, che è un mestiere davvero molto particolare, direi unico, che non conoscevo, sinceramente, e che non avrei mai immaginato fosse esistito, vorrei dedicare due parole a un lavoro meno artigianale ma, comunque, curioso, che ormai è stato praticamente soppiantato dalla tecnologia, direi: cioè quello del, o della, centralinista. Prima dei telefoni automatici, per poter fare una chiamata era necessario passare attraverso una centralinista, che lavorava nel centralino, appunto, che collegava manualmente le linee, che connetteva, letteralmente, persone distanti tra loro. Il lavoro della centralinista, o della centralinista (perché spesso erano donne), come vedremo, consisteva nell’inserire ed estrarre dei cavi, dei jack, un’operazione che era necessaria per connettere e disconnettere una chiamata tra due utenti. Esistevano migliaia di centralinisti che, allo stesso tempo, connettevano centinaia di cavi telefonici tra una telefonata e l’altra. E, come dicevo, di solito era un mestiere femminile, anche perché, purtroppo, le donne costavano meno rispetto agli uomini. Quindi, venendo pagate di meno, venivano assunte per questo lavoro. Comunque, poi, con l’automazione delle telecomunicazioni, anche questa professione… se non è del tutto scomparsa, è cambiata, si è evoluta in maniera profonda. Ora non bisogna più fare nulla di manuale, né ricordare milioni di numeri di telefono a memoria! Tra l’altro, pare che l’uso di “pronto”, che è il saluto che in italiano usiamo quando rispondiamo al telefono, no? Quando riceviamo una chiamata diciamo “pronto?”; ecco, pare che questo uso di pronto abbia a che vedere con la figura del centralinista, che confermava che il collegamento tra i due utenti era “pronto” e che quindi la chiamata poteva iniziare.
Ma arriviamo ora al gran finale, che è qualcosa che probabilmente non ti aspetti. È un mestiere che è esistito, diciamo, durante la guerra, ed è qualcosa di davvero particolare, ovvero l’“uomo radar”. Infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale, prima che i radar diventassero di uso comune, alcune persone venivano impiegate per intercettare il rumore degli aerei nemici utilizzando degli strumenti chiamati aerofoni. Questi dispositivi, questi aerofoni, erano praticamente dei grandi coni metallici collegati tra loro da tubi, e servivano ad amplificare i suoni provenienti dal cielo. Il tutto, poi, terminava con due aperture appoggiate sulle orecchie dell’operatore, che così, praticamente, poteva percepire rumori che solo con l’orecchio umano non sarebbero stati percepiti. L’“uomo radar” non aveva superpoteri, ma era posizionato in luoghi strategici, come colline o montagne, e, grazie a questi strumenti, era in grado di captare la direzione, ma anche la distanza, degli aerei nemici. In Italia, in particolare, furono arruolati anche uomini non vedenti, che si riteneva fossero più sensibili ai suoni, quindi avevano un vantaggio in più. E quindi, praticamente, erano dei radar umani, in un certo senso, che con il proprio udito e con questi strumenti rudimentali erano in grado di, insomma… percepire l’arrivo degli aerei da lontano. Curioso, vero? Io non sapevo che questo mestiere esistesse, non conoscevo questa pagina della storia militare italiana… ed è davvero curioso.
Bene, siamo arrivati alla fine di questo episodio. Abbiamo visto alcuni mestieri già estinti, alcuni che stanno sparendo, e che comunque sono una testimonianza del passato, una capsula del tempo che ci riporta a un’epoca che non c’è più. La tecnologia va avanti e ciò che ieri era la normalità oggi è un ricordo passato.
Ma sono curioso di sapere quale, fra questi mestieri, ti ha colpito di più. Magari quali, di questi mestieri, esistevano anche nel tuo Paese. Perché, sicuramente, non sono solo mestieri italiani ma diffusi anche in altri Paesi. Fammelo sapere con un commento nell’app in cui mi stai ascoltando, come Spotify, dove puoi anche lasciare commenti, oppure sul mio sito. Perché, adesso, è anche possibile lasciare commenti agli episodi del podcast direttamente sul sito podcastitaliano.com. E, se ti piace questo progetto, magari lascia anche un voto positivo o una recensione positiva. Siamo arrivati alla fine: ti saluto e ti ringrazio per l’ascolto. Alla prossima, ciao!
Se pensiamo a come vivevano i nostri genitori, nonni e bisnonni in Italia (ma magari anche nel tuo Paese), ci rendiamo conto di quante cose siano cambiate in cinquanta o cent’anni. L’Italia, prima del miracolo economico (quindi, essenzialmente, quel periodo che va tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso) era un Paese povero, arretrato e prevalentemente agricolo, con un’industria ancora poco sviluppata. Per fare un esempio, i supermercati, che oggi diamo per scontati, no? (Fanno parte dell’esperienza umana, almeno nel mondo sviluppato) Non esistevano. Il primo è arrivato in Italia, a Milano, nel 1957.
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Trascrizione interattiva dell'episodio
E, in un Paese molto diverso, anche i mestieri che facevano le persone erano diversi. Dovessimo tornare indietro, di cent’anni o più, troveremmo un Paese in cui la maggior parte delle persone lavorava nei campi, oppure nelle fabbriche (anche se l’industrializzazione, in Italia è arrivata con un certo ritardo rispetto agli altri Paesi europei). Ma c’erano anche altri mestieri tradizionali che oggi ci sembrano curiosi, visti dalla prospettiva di una persona del 2025, mestieri che oggi sono di fatto spariti, scomparsi, non esistono più perché sono stati, di fatto, resi obsoleti dal progresso e dall’industrializzazione, mentre altri sopravvivono a fatica, magari per tradizione e folklore.
In questo episodio ti voglio raccontare alcuni di questi lavori del passato, specie alcuni che ritengo particolarmente curiosi e interessanti, perché ci raccontano qualcosa su com’era l’Italia del passato, l’Italia, in buona parte, precedente al boom economico che, come dicevo, è stato davvero un momento di svolta incredibile, un vero e proprio spartiacque nella storia del nostro Paese.
Io sono Davide e questo è Podcast Italiano, un podcast per chi vuole imparare l’italiano attraverso contenuti interessanti. Prima di iniziare, ti ricordo che questo episodio è accompagnato da una trascrizione e da un glossario gratuiti che puoi trovare sul mio sito, podcastitaliano.com. Ma ti lascio il link nelle note dell'episodio. La trascrizione è davvero uno strumento importante, perché ti aiuta a ottenere il massimo dall'episodio. Io consiglio di leggere e ascoltare allo stesso tempo, se non riesci a capire, diciamo, il 60, 70% di quello che dico. Ma anche di usare il glossario dopo aver ascoltato, per rivedere le parole che magari non hai capito o che vorresti memorizzare. Comunque, il link è nelle note dell’episodio, lo puoi trovare nell'app che stai usando per ascoltarmi, come Spotify, o Apple Podcast, o qualsiasi app di podcast.
Bene, il primo mestiere di cui ti voglio parlare è quello dell’arrotino. Il verbo stesso “arrotare”, che significa “affilare”, ci racconta il mestiere dell’arrotino. L’arrotino era una figura indispensabile nelle città e nei piccoli paesi, e lo è stato fino alla metà del Novecento. Il suo compito era, appunto, quello di affilare coltelli da cucina, o forbici da sarta e vari strumenti da taglio, utilizzati sia in casa che nelle botteghe degli artigiani. “Affilare” , a proposito, significa “rendere la lama di uno strumento più tagliente, più affilata”, appunto. Si parla, infatti, del “filo” di una lama, da cui, appunto, affilare. Ecco. Ma si dice anche “arrotare”, che ha lo stesso significato. E l'arrotino girava per le strade con una bicicletta o con un carretto su cui era montata una mola, cioè lo strumento che serviva per affilare le lame. Questa mola girava come una ruota e da qui il verbo “arrotare”, appunto. Il mestiere dell’arrotino non era semplice: col sole o con la pioggia, era sempre in cammino, vagava da un paesino all'altro, in cerca di lavoro, annunciando i propri servizi alla gente che passeggiava o che era affacciata sul balcone. E, per annunciarsi, gridava una frase famosa, iconica, che ancora viene usata oggi da quei pochi arrotini rimasti, cioè “Donne, è arrivato l’arrotino!”. E, se ti stai chiedendo perché l’arrotino parlasse direttamente e solo alle donne, la risposta è semplice: all’epoca, in una società molto diversa dalla nostra, si credeva che il compito di organizzare e prendersi cura della casa, e quindi anche degli strumenti da cucina, spettasse esclusivamente alle donne, quindi considerate le “custodi” della cucina e della casa, in generale. Comunque, con l’arrivo dei coltelli in acciaio inox, cioè inossidabile, e delle affilatrici elettriche, (ma anche, più in generale, dei supermercati, dove uno può andare a comprare un coltello nuovo se quello vecchio non funziona più bene), beh… la figura dell’arrotino ha perso la sua rilevanza oggi. Ed è, quindi, sicuramente un mestiere in via d’estinzione, ma non ancora del tutto estinto: oggi gli arrotini girano ancora, raramente, ma girano ancora per le strade con un furgone sormontato da altoparlanti che riproducono il loro slogan famosissimo che, tra l’altro, è lo stesso per tutti. Cioè tutti gli arrotini usano la stessa registrazione da anni!
L’arrotino faceva spesso anche l’ombrellaio, cioè la persona che riparava gli ombrelli rotti o danneggiati, sostituendo le stecche e i tessuti strappati degli ombrelli. Poi, con la diffusione degli ombrelli economici, che si pagano davvero a poco prezzo e si rompono, anche, dopo pochi utilizzi, appena c’è un po’ di vento si rompono, anche questo mestiere dell’ombrellaio è quasi scomparso. Mestieri come l’arrotino e l’ombrellaio sono, se vogliamo, il simbolo di un’epoca in cui le cose, quando si rompevano, si aggiustavano, si riparavano, e non si buttavano via, perché… perché sarebbe stato un lusso. Comunque, come ho già menzionato, può capitare di vedere ancora oggi arrotini e ombrellai cercarsi lavoro per le strade di alcune città, fra cui Roma, come ci segnala la nostra corrispondente Irene, ma anche qui da me, in provincia di Torino, a volte capita di sentire l’arrotino che passa, annunciato dall’ altoparlante del suo furgone. Ecco, mi è successo, tra l’altro, pochi giorni fa**. A proposito**, ti voglio far sentire l’annuncio dell’arrotino:
“È arrivato l'arrotino: arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l'arrotino e l'ombrellaio: aggiustiamo gli ombrelli! L'ombrellaio, donne! Ripariamo cucine a gas: abbiamo i pezzi di ricambio per le cucine a gas. Se avete perdite di gas, noi le aggiustiamo. Se la cucina fa fumo, noi togliamo il fumo della vostra cucina a gas.”
Dopo aver parlato dell'ombrellaio, diamo il via a una lunga lista di mestieri che terminano con il suffisso -aio. Devi sapere che -aio si usa spesso per riferirsi a mestieri. Mi viene in mente, per esempio, il giornalaio (altro mestiere di cui, forse, dovremmo parlare perché si sta estinguendo) comunque, colui che vende giornali. Oppure, un mestiere che esiste ancora oggi, anche se forse non va più così di moda, è quello dell’orologiaio che si occupa di riparare orologi.
Bene, ti voglio dunque parlare del carbonaio, cioè colui, la persona che produceva carbone partendo dalla legna. Il processo è interessante: quando la legna viene bruciata lentamente, in assenza di ossigeno, si trasforma, praticamente, in carbone vegetale. Bisogna, però, fare attenzione che non si trasformi in cenere, che non si incenerisca: ecco perché il lavoro del carbonaio era molto faticoso. Era, infatti, necessario sorvegliare il fuoco giorno e notte, per diversi giorni, per evitare che il fuoco, la combustione, diventasse troppo intensa e incenerisse la legna. E questo non era l’unico sacrificio richiesto: i carbonai trascorrevano lunghi periodi in montagna, dalla primavera all’autunno, per tagliare la legna e costruire queste carbonaie (cioè, praticamente, delle cataste di legna, dei mucchi di legna, costruiti con una tecnica particolare, che erano costruiti proprio all’interno dei boschi). Queste cataste venivano coperte di terra e foglie e lasciate bruciare lentamente, per giorni, dall’interno, in un processo di combustione controllata, appunto, che aveva come risultato quello di produrre il carbone. Probabilmente l’ho detta male ma, in sostanza, questo era il processo, per come lo posso capire io.
Il mestiere di carbonaio era molto diffuso fino alla metà del secolo scorso, quindi fino a metà del 900. Oggi non è completamente scomparso, infatti, a quanto pare, ci sono ancora carbonai che operano soprattutto in Calabria; poi, con la diffusione del gas e dell’elettricità per il riscaldamento e per la cucina, quest’attività è diventata obsoleta. Oggi il carbone si usa principalmente per fare i barbecue (o barbecue, in base alla pronuncia che adottiamo) che si chiamano anche “grigliate”, in italiano, oppure per alimentare i fuochi dei forni a legna nelle pizzerie. Quindi, la persona “comune” non ha un particolare fabbisogno di carbone… non è un materiale di cui ha una grande necessità, diciamo così. Però, quello del carbonaio, è stato un mestiere molto importante per l’Italia, in particolare per il Nord, dove il clima è più freddo.
Passiamo al prossimo mestiere: il cordaio, anche detto “funaiolo”, ovvero colui che costruiva le corde, le funi, che servivano ai contadini per legare i fasci di fieno, grano e paglia fra loro. E non solo, perché si sa che le corde hanno mille usi diversi. Il cordaio fabbricava corde di lino o altre fibre naturali come la canapa, che veniva raccolta, fatta essiccare, macerata nell’acqua e poi scomposta, ovvero divisa in tanti sottili filamenti, come dei capelli, che venivano fatti asciugare al sole per poi essere uniti e filati, ****così da diventare una corda. Questo mestiere era fondamentale quando le corde erano fatte a mano, con fibre naturali. Poi, con l’avvento delle fibre sintetiche e delle macchine per la produzione industriale, anche la figura del cordaio ha perso importanza fino a sparire, piano piano. Il mestiere del cordaio ci ricorda anche un po’ quello della filatrice, quella persona che trasformava le fibre naturali come lana, lino, e cotone, in filati da tessere, materiali che potevano essere, appunto, tessuti. Questo mestiere era essenziale prima della rivoluzione industriale, prima che arrivassero le fabbriche tessili; poi, ovviamente, anche lui ha perso la sua centralità, rimanendo però una pratica artigianale, come la maggior parte dei mestieri che abbiamo menzionato finora.
In seguito abbiamo il lattaio, cioè colui che consegnava il latte fresco, porta a porta (cioè casa per casa), ogni mattina. La figura del lattaio è rimasta, credo, fino agli anni ‘50 o ‘60. Adesso non so dirlo con certezza, quindi prendete con le pinze queste informazioni, però… i nostri nonni, di solito, parlavano ancora del lattaio. Quindi suppongo che, fino all’avvento dei supermercati, i lattai fossero ancora molto diffusi nelle città. E anche il lavoro del lattaio non era facile: col sole e con la pioggia, arrivava nei paesi e nelle città alle prime ore del mattino, di solito in bicicletta, sulla quale erano sistemati dei grossi contenitori di alluminio pieni di latte appena munto, latte fresco. All’epoca il latte si vendeva grezzo, non sterilizzato, non pastorizzato, perché proveniva direttamente dalla stalla, cioè da dove si trovano le mucche. Quindi, le “donne di casa” erano costrette a bollirlo, ok? Farlo bollire, anche più volte, per renderlo bevibile. Alcuni lattai, pensa, giravano per strada direttamente con i loro greggi di mucche o capre e, su richiesta, mungevano sul posto gli animali per poi riempire le bottiglie (in vetro, ovviamente, non in plastica) dei clienti. Tra l’altro una cosa affascinante è proprio questa: che il lattaio, passando di casa in casa, recuperava le bottiglie di vetro vuote. Questa, dal mio punto di vista, sarebbe una pratica ecologica che avrebbe senso riportare in vita, riportare in auge, come diciamo anche, in italiano.
Con la diffusione dei supermercati e del latte a lunga conservazione la figura del lattaio è quasi completamente scomparsa, anche se, dove abito io, al Nord, esistono direi da una quindicina d’anni, delle casette, dei chioschi, che, di fatto, sono dei distributori automatici di latte crudo, distributori che vengono gestiti direttamente dagli allevatori. Ora… non so quanto siano diffusi nel resto d’Italia; facendo una rapida ricerca mi pare di capire che siano soprattutto una cosa comune qui al Nord e soprattutto nelle provincie di Milano e di Torino. Io non l’ho mai preso, in realtà, il latte da questi distributori, ammetto, comunque è latte crudo, che va sempre bollito (come si faceva un tempo) e consumato entro poco tempo, a meno che uno non sia interessato a prendersi malattie… “poco simpatiche”, diciamo così.
Andando avanti, possiamo menzionare lo zoccolaio, cioè colui che produceva, fabbricava, gli zoccoli in legno, un tempo molto diffusi, soprattutto nelle campagne. Gli zoccoli erano una calzatura (una calzatura è qualcosa che si mette ai piedi, no? Questo è il termine tecnico) che era apparentemente, di facile realizzazione. Perché, tradizionalmente, erano fabbricati da un unico pezzo di legno, di ontano o pioppo, un legno resistente ed elastico, che è anche ottimo per essere intagliato. Il calzolaio lavorava al panchetto, una panca in legno, su cui si sedeva e gestiva tutto il processo, che è un po’ troppo lungo e complicato da spiegare, non sono la persona giusta per farlo. Comunque si trovano molti video online, se ti interessa vedere come si fabbricavano gli zoccoli. In passato, gli zoccoli erano, di fatto, la calzatura più comune tra i contadini e le classi urbane meno abbienti. E furono anche una delle poche alternative all’andare in giro scalzi, almeno fino al secondo dopoguerra, quando la ripresa economica permise la diffusione delle scarpe. Ovviamente le scarpe esistevano già, da un sacco di tempo, però, appunto, erano un oggetto di lusso che le persone non potevano cambiare ogni… qualche mese, come facciamo oggi, che, magari… oggi abbiamo persino… collezioniamo scarpe, abbiamo decine di scarpe. Questo ci aiuta a capire quanto era differente la vita al tempo, dove un paio di scarpe era un lusso per la maggior parte delle persone e dei contadini, almeno. Poi, con l’evoluzione della moda e l’arrivo di materiali più leggeri e confortevoli, il mestiere dello zoccolaio è scomparso quasi del tutto, restando vivo solo in alcune zone dove gli zoccoli tradizionali sono ancora apprezzati.
E non è finita qui: perché, fra i mestieri antichi che presentano il suffisso -aio, abbiamo anche il selciaio, o anche selciaiolo o selciarolo, ovvero colui che costruiva il selciato, cioè praticamente il pavimento delle strade, la copertura delle strade. Il suo lavoro consisteva praticamente nel posare i ciottoli e le pietre per pavimentare strade e piazze. Se t’immagini un centro storico italiano tipico, probabilmente te lo immaginerai con quella tipica pavimentazione stradale formata da cubetti di pietra o, in alternativa, ciottoli (quindi pietre un po’ più piccole, un po’ più curve). Tra l’altro quei cubetti tipici vengono chiamati, di solito, “sampietrini”(è un termine che deriva da Piazza San Pietro a Roma, dove furono utilizzati per la prima volta, a quanto pare, nel XVI secolo) oppure anche “bolognini” che, in teoria, sarebbero più diffusi al Nord. Anche se io li ho sempre sentiti chiamare “sampietrini”, almeno qui a Torino. Non so in altre città.
Oggi, questo tipo di pavimentazione rimane comune, in Italia, almeno nei centri storici. Fuori dai centri storici, ovviamente, è più comune l’asfalto, ma non esiste più la figura del selciaio o del selciaiolo, perché della pavimentazione delle città si occupano operai edili generici o imprese specializzate, ma anche enti pubblici che si occupano di… di sistemare le strade.
Poi abbiamo anche il materassaio, colui che realizzava e imbottiva materassi con lana o crine (il crine sarebbe un materiale che può essere di origine animale o vegetale che si usava, appunto, per imbottire i materassi). Questo mestiere è sopravvissuto fino alla seconda metà degli anni settanta, in Italia, periodo in cui ancora si usavano i vecchi materassi imbottiti di lana. Oggi compriamo un materasso e lo usiamo finché non si rompe. Magari lo giriamo, in base alla stagione, per dormire sul lato giusto, cioè quello invernale o estivo; magari, ogni tanto, lo sbattiamo o lo disinfettiamo. Ma, in passato, i vecchi materassi imbottiti di lana, venivano lavati periodicamente. O meglio, venivano scuciti, veniva estratta la lana al loro interno, veniva lavata, stesa al sole ad asciugare, cardata (cioè districata, “pettinata”, diciamo così) ed poi veniva rimessa nel materasso. Quindi una pratica abbastanza laboriosa, che avveniva di solito nei mesi estivi, ed era… ed era il materassaio che doveva ridare forma ai materassi, doveva ricucirli e renderli piatti. Non era facile dare forma alla lana. Poi, come puoi ben immaginare, con la produzione industriale, l’avvento di materiali sintetici, e la diffusione dei materassi in gommapiuma o a molle, questo mestiere è praticamente scomparso, con rare eccezioni.
E poi c’era il lampionaio… ecco, questo è un mestiere interessante, che, a sentirlo oggi, può sembrare strano, può sembrare curioso. Oggi i lampioni, nelle strade, si accendono automaticamente, da soli, a una certa ora. Ma, fino alla prima metà del 900, esisteva una figura chiamata il “lampionaio”, che aveva il compito di andare in giro e accendere e spegnere i lampioni a gas delle strade, tutti i giorni. Era un lavoro che richiedeva precisione e puntualità, perché la città dipendeva dalla sua efficienza per avere luce nelle ore serali e notturne. Ovviamente con l’illuminazione elettrica automatica anche questo mestiere è diventato obsoleto, ma è resistito, appunto, fino agli anni ‘50, perché l’illuminazione elettrica non c’era ancora in tutta Italia.
Un altro mestiere che richiedeva puntualità era quello del campanaro, cioè colui che suonava manualmente le campane delle chiese, scandendo il tempo per la comunità. Campanaro, a proposito, ha questo suffisso -aro, che praticamente ha lo stesso significato di -aio; la cosa curiosa è che, di solito, il suffisso -aio è comune in Toscana ed è quindi, diciamo, il suffisso standard che si è diffuso un po’ nel resto d’Italia con la diffusione dell’italiano, ma ci sono parole che hanno anche -aro. E -aro è più tipico del centro Italia, di Roma in particolare, tanto che alcuni mestieri “moderni”, diciamo così, per esempio il kebabbaro, la persona che vende kebab, hanno proprio questo suffisso di origine romana -aro che, quindi, ha una certa vitalità, oggi. Comunque, tornando al nostro campanaro, anche questo con i sistemi elettronici e le campane automatizzate, è un mestiere che è praticamente scomparso, che resiste solo in poche chiese storiche, come la Torre degli Asinelli a Bologna, che ha ancora dei campanari che suonano secondo le antiche tradizioni, almeno in occasioni come Natale, Pasqua, e Capodanno. Quello del campanaro è un mestiere, tra l’altro, molto pericoloso, perché le campane sono oggetti enormi e pesanti, per cui è necessaria anche una certa forza fisica. Ma è anche un mestiere importante: infatti, in passato, i rintocchi delle campane erano fondamentali per scandire il tempo, scandire le giornate e la vita quotidiana delle comunità. Ed erano anche una sorta di sistema di comunicazione collettivo, che annunciava eventi religiosi, civili, e anche situazioni di emergenza.
Ora voglio parlare di un mestiere un po’ più artistico che in Italia ha una sua importanza culturale, che, a quanto pare, qualcuno chiama “presepista”. Non so se è un nome ufficiale ma l’ho trovato online. Praticamente, il presepista sarebbe l’artigiano, l’artista, specializzato nella creazione, nella realizzazione di presepi artigianali. Che cos’è un “presepe”, o un “presepio” (abbiamo queste due varianti)? È una raffigurazione artistica della Natività di Gesù, che è fatta con statue, con figure in miniatura o, addirittura, in alcuni casi, anche con personaggi viventi (questo è il caso dei “presepi viventi”, che esistono in alcune città italiane. E si allestiscono, chiaramente, durante il periodo di Natale: molte persone, persone religiose, realizzano il proprio presepio (o presepe) in casa, insieme all’albero di Natale. Il presepista, dunque, crea gli sfondi, le case, le statuette (quindi tutti i diversi mestieri che vediamo nel contesto del presepe), e poi gli animali, il cibo in miniatura ecc.
Sebbene il presepe sia ancora una tradizione viva in Italia, la produzione industriale di statuette e decorazioni in plastica e altri materiali ha ridotto il numero di artigiani specializzati. Tuttavia, a Napoli, è rimasto un mestiere tipico, storico e, lungo Via San Gregorio Armeno, si trovano ancora oggi le botteghe di questi maestri artigiani, che creano a mano statuine in terracotta o cartapesta. Se passi da Napoli, soprattutto durante il periodo di Natale, è una cosa che ti consiglio di andare a scoprire.
Prima di arrivare al gran finale, che è un mestiere davvero molto particolare, direi unico, che non conoscevo, sinceramente, e che non avrei mai immaginato fosse esistito, vorrei dedicare due parole a un lavoro meno artigianale ma, comunque, curioso, che ormai è stato praticamente soppiantato dalla tecnologia, direi: cioè quello del, o della, centralinista. Prima dei telefoni automatici, per poter fare una chiamata era necessario passare attraverso una centralinista, che lavorava nel centralino, appunto, che collegava manualmente le linee, che connetteva, letteralmente, persone distanti tra loro. Il lavoro della centralinista, o della centralinista (perché spesso erano donne), come vedremo, consisteva nell’inserire ed estrarre dei cavi, dei jack, un’operazione che era necessaria per connettere e disconnettere una chiamata tra due utenti. Esistevano migliaia di centralinisti che, allo stesso tempo, connettevano centinaia di cavi telefonici tra una telefonata e l’altra. E, come dicevo, di solito era un mestiere femminile, anche perché, purtroppo, le donne costavano meno rispetto agli uomini. Quindi, venendo pagate di meno, venivano assunte per questo lavoro. Comunque, poi, con l’automazione delle telecomunicazioni, anche questa professione… se non è del tutto scomparsa, è cambiata, si è evoluta in maniera profonda. Ora non bisogna più fare nulla di manuale, né ricordare milioni di numeri di telefono a memoria! Tra l’altro, pare che l’uso di “pronto”, che è il saluto che in italiano usiamo quando rispondiamo al telefono, no? Quando riceviamo una chiamata diciamo “pronto?”; ecco, pare che questo uso di pronto abbia a che vedere con la figura del centralinista, che confermava che il collegamento tra i due utenti era “pronto” e che quindi la chiamata poteva iniziare.
Ma arriviamo ora al gran finale, che è qualcosa che probabilmente non ti aspetti. È un mestiere che è esistito, diciamo, durante la guerra, ed è qualcosa di davvero particolare, ovvero l’“uomo radar”. Infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale, prima che i radar diventassero di uso comune, alcune persone venivano impiegate per intercettare il rumore degli aerei nemici utilizzando degli strumenti chiamati aerofoni. Questi dispositivi, questi aerofoni, erano praticamente dei grandi coni metallici collegati tra loro da tubi, e servivano ad amplificare i suoni provenienti dal cielo. Il tutto, poi, terminava con due aperture appoggiate sulle orecchie dell’operatore, che così, praticamente, poteva percepire rumori che solo con l’orecchio umano non sarebbero stati percepiti. L’“uomo radar” non aveva superpoteri, ma era posizionato in luoghi strategici, come colline o montagne, e, grazie a questi strumenti, era in grado di captare la direzione, ma anche la distanza, degli aerei nemici. In Italia, in particolare, furono arruolati anche uomini non vedenti, che si riteneva fossero più sensibili ai suoni, quindi avevano un vantaggio in più. E quindi, praticamente, erano dei radar umani, in un certo senso, che con il proprio udito e con questi strumenti rudimentali erano in grado di, insomma… percepire l’arrivo degli aerei da lontano. Curioso, vero? Io non sapevo che questo mestiere esistesse, non conoscevo questa pagina della storia militare italiana… ed è davvero curioso.
Bene, siamo arrivati alla fine di questo episodio. Abbiamo visto alcuni mestieri già estinti, alcuni che stanno sparendo, e che comunque sono una testimonianza del passato, una capsula del tempo che ci riporta a un’epoca che non c’è più. La tecnologia va avanti e ciò che ieri era la normalità oggi è un ricordo passato.
Ma sono curioso di sapere quale, fra questi mestieri, ti ha colpito di più. Magari quali, di questi mestieri, esistevano anche nel tuo Paese. Perché, sicuramente, non sono solo mestieri italiani ma diffusi anche in altri Paesi. Fammelo sapere con un commento nell’app in cui mi stai ascoltando, come Spotify, dove puoi anche lasciare commenti, oppure sul mio sito. Perché, adesso, è anche possibile lasciare commenti agli episodi del podcast direttamente sul sito podcastitaliano.com. E, se ti piace questo progetto, magari lascia anche un voto positivo o una recensione positiva. Siamo arrivati alla fine: ti saluto e ti ringrazio per l’ascolto. Alla prossima, ciao!
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