L'Italia è un paese per VECCHI?
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Vorrei cominciare questo episodio da un film, una delle produzioni cinematografiche italiane più belle degli ultimi decenni. Sto parlando di “La meglio gioventù”, pellicola uscita nel 2003, proprio venti anni fa: si tratta di un lunghissimo film in più parti, o forse più correttamente di una breve serie TV. Narra la storia di una normale famiglia italiana - i Carati - attraverso il secondo dopoguerra italiano, dagli anni ‘60 ai giorni nostri: come descritto nel titolo, parla della generazione dei giovani anni ‘60, coloro che sarebbero diventati i medici, gli imprenditori e gli economisti di oggi. In sostanza, la classe dirigente dell’Italia contemporanea.
Partirei proprio da una delle prime scene del film. Assistiamo all’esame universitario di uno dei personaggi principali, Nicola Carati, aspirante medico. La scena si apre con uno dei grandi baroni dell’università italiana: in Italia, i professori universitari hanno un potere così ampio che si dice che siano dei “baroni”, quasi dei feudatari medievali. Comunque sia, il nostro barone, dopo l’esame di Nicola, gli dice che, gli avrebbe potuto dare un voto inferiore, ma alla fine gli ha dato 30 - il voto massimo - e spiega così la sua decisione: “Lei avrebbe meritato 28, 29, ma le ho messo 30 perché ho applicato quello che io chiamo il quoziente di simpatia: vede, io credo che nella simpatia nel senso greco del termine, cioè condividere il pathos, la sofferenza altrui: è molto importante per un medico. Voglio darle un consiglio, ha qualche ambizione? E allora vada via. Se ne vada dall’Italia. Lasci l’Italia finché è in tempo. Vuole fare il chirurgo? Vada a studiare a Londra, a Parigi, in America se ne ha la possibilità. Ma lasci questo paese, l’Italia è un paese da distruggere, un posto bello e inutile, destinato a morire”. Nicola a questo punto chiede: “cioè secondo lei tra poco ci sarà un’apocalisse?” “Magari, almeno saremmo tutti costretti a ricostruire. Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta: vada via!”. Alla fine Nicola non riesce a resistere: “E lei allora professore, perché rimane?” “ma come perché - risponde il barone - io sono uno dei dinosauri da distruggere!”
Ecco, direi che in questo breve scambio viene illustrata in modo efficacissimo, e rapido, l’intera questione di fondo che rende l’Italia un paese per vecchi: la mancanza di innovazione, un’economia poco dinamica e asfittica, il potere esagerato degli anziani. Attenzione, non voglio di certo attaccare gli anziani, che hanno un ruolo importante nella società e sarebbe sbagliato dimenticarselo: per esempio badano ai nipoti, che in un paese in cui molte coppie non hanno figli per difficoltà economiche è un ruolo importantissimo; e hanno contribuito alla miracolosa crescita del paese negli anni ‘60, di cui abbiamo già parlato. Voglio semmai criticare il sistema, che a mio modo di vedere rappresenta uno degli ostacoli maggiori alla crescita dell’Italia moderna. Questo è un problema importante, strutturale, del nostro paese, che, avremmo potuto affrontare molto tempo fa, prendendo decisioni che avrebbero aiutato forse a mitigare un enorme problema in futuro. Ma non si è fatto, e oggi quel problema è qui per restare.
Quando si sostiene che “l’Italia è un paese per vecchi”, per estensione in sostanza si dice che l’Italia non sarebbe un paese per giovani. Ci sono vari motivi per sostenerlo: in generale, riassumendo, i giovani avrebbero poche prospettive di carriera, scarso potere e influenza sulla società e la politica italiane. Sarebbero sfruttati dalle classi d’età più anziane. Ma è vero? E se sì, perché?
Che l’Italia sia un paese per vecchi è un sentimento molto diffuso in Italia, motivo per cui tanti giovani vorrebbero emigrare e molti l’hanno già fatto. Secondo l’Istat - l’istituto italiano di statistica - in ognuno degli ultimi 10 anni più di 100 mila italiani avrebbero lasciato il paese. Al netto di chi è tornato, l’Italia avrebbe perso quasi mezzo milione di cittadini italiani.
Tra questi, molti di quelli che lasciano sono laureati: a questo proposito in Italia si parla spesso della “fuga dei cervelli”, ossia l’emigrazione dei profili più qualificati. Sempre negli ultimi dieci anni il saldo tra laureati immigrati ed emigrati è stato negativo di circa 80 mila giovani laureati.
Ora, potremmo considerare 80mila persone un numero piuttosto piccolo per un paese di 60 milioni di abitanti, ma sarebbe un errore, perché l’Italia in questo è un paese unico all’interno della relativamente ricca europa occidentale: tutti gli altri paesi di questa regione attraggono laureati da tutto il mondo, e il saldo è tendenzialmente positivo.
I dati non migliorano se guardiamo ai giovani che restano in Italia: un dato da considerare è quello della disoccupazione giovanile, ovvero quanti giovani sotto i 25 anni sono disoccupati sul totale di chi vuole lavorare. L’Italia ha una disoccupazione giovanile del 22% circa: più di un giovane su cinque lavorerebbe pure, ma non trova un’occupazione. In Europa un tasso di disoccupazione giovanile più alto si trova solo in Spagna e Grecia. In Germania la disoccupazione giovanile è al 5%, negli Stati Uniti è all’8%.
Eppure neanche questo quadro da solo basterebbe e a trasmettere il grado di scoramento ed emarginazione del quale soffrono i giovani in Italia. Per comprendere questo tema, temo che ci voglia un’altra statistica, quella dei cosiddetti “giovani scoraggiati” (il termine inglese, usato anche in italiano è NEET: Not in Education, Employment or Training”). Quando parliamo di NEET ci riferiamo alla percentuale di giovani sotto i trent’anni che non stanno studiando, non lavorano e non stanno facendo formazione: in sostanza, sembrerebbe che non abbiano uno scopo nella vita.
Secondo Eurostat - l’istituto di statistica europeo - i NEET in Europa ammonterebbero in media circa al 10% della popolazione giovanile. Dopo la Romania, l’Italia ha il dato più alto: quasi il 20%. A mio avviso, potrebbe essere uno dei dati più deprimenti che descrivono la situazione giovanile in Italia, perché dà il senso della mancanza di direzione, di fiducia nel futuro di un’intera generazione di italiani. Secondo voi, cosa avrebbe detto di loro il nostro dinosauro de “la meglio gioventù”?
Eppure sbaglieremmo a credere che è sempre stato così. Certo, l’Italia ha certamente una cultura di fondo gerarchica e gerontocratica - ovvero dove a governare sono gli anziani, dal greco gérōn, ‘anziano’ - ma in passato è stato un paese molto più dinamico. Negli anni ‘60 i giovani in Italia erano importanti ed influenti: la rivoluzione del ‘68 impattò rapidamente la cultura di massa, portando a determinanti riforme della scuola e dell’Università, due istituzioni chiave che furono rese meno elitarie e classiste, e questo proprio su richiesta dei giovani italiani che a quel tempo, politicamente, contavano eccome. Inoltre nel dopoguerra l’Italia è stato un paese tutt’altro che stagnante: era il paese del “miracolo economico”, come abbiamo visto nella prima lezione. Nel 1966, in contemporanea con i primi movimenti studenteschi, si affermò all’interno di Confindustria un gruppo associativo di “giovani imprenditori”: ah, Confindustria è l’associazione dei grandi imprenditori italiani, che ha sempre avuto una grande rilevanza nella storia repubblicana. In futuro i giovani della Confindustria sarebbero diventati un vero e proprio gruppo di potere, a volte molto critico con la dirigenza dell’associazione. Anche in politica, dopo le forti proteste giovanili del ‘68, negli anni ‘70 si sarebbero affermati nella politica italiana delle potenti organizzazioni giovanili all’interno dei grandi partiti repubblicani: ad esempio la Federazione dei Giovani Comunisti, importante organo del secondo partito italiano. Il movimento giovanile della Democrazia Cristiana - il principale partito di governo dal 1945 al 1992 - ebbe come primo capo Giulio Andreotti, che sarebbe diventato poi il più importante politico dell’Italia repubblicana. Queste organizzazioni avevano una notevole influenza sulla dirigenza dei partiti, mentre fuori dal Parlamento i ragazzi e i giovani, con le loro proteste e movimenti studenteschi, credevano che sarebbero riusciti a stravolgere lo status quo e alla fine sono riusciti a portare visibilità ai tempi a loro più cari.
Per certi versi, i tardi anni ‘60 e gli anni ‘70 furono i decenni di massima importanza data ai giovani italiani, e non a caso: negli anni ‘50 e ‘60, nacquero tra gli 800mila e 1 milione di bambini all’anno, con una popolazione italiana che aveva circa 50 milioni di abitanti: questi sono coloro che poi, negli anni ‘60 e ‘70, divennero attivi in politica ed economia. I ragazzi tra 18 e 30 anni, all’epoca, erano una percentuale significativa dell’intera popolazione. L’età mediana nel 1961 era 31 anni: ovvero c’erano altrettanti italiani con meno di 31 anni di quanti ce ne fossero con più di 31 anni (oggi, come vedremo tra poco, l’età mediana è di 48 anni). In politica e in economia, nella cultura come nella società i numeri contano eccome: se un paese è molto giovane, ci aspetteremmo un’importanza dei giovani molto maggiore nella società. Non è sempre vero, ma il più delle volte c’è una correlazione tra numeri ed influenza politica.
Forse però non ci si aspettava che questo periodo si sarebbe concluso. I giovani di allora, ai tempi, non avrebbero potuto saperlo, ma a partire dal 1970 le cose sarebbero iniziate a cambiare, e di nuovo la causa era la demografia. All’incirca a partire dal 1970 la natalità in Italia crollò: in parte è dovuto alla rivoluzione sessuale, all’aumento della contraccezione maschile e - soprattutto - femminile. Un fattore determinante è il maggiore benessere ed emancipazione delle donne, determinate a slegarsi dal vecchio ruolo di semplici madri. Inoltre cambiarono i costumi: ci si sposava più tardi, c’era un maggiore edonismo che portava a desiderare di posticipare il matrimonio. Certamente il calo delle nascite non era effetto di minore reddito: in Italia, come in altri paesi, il numero di figli diminuisce quando il reddito disponibile aumenta. Ancora nel 1970, ci si poteva aspettare da una donna che avrebbe partorito 2,4 figli: nel 1977 questo dato era sceso sotto 2 figli in media, la soglia sotto la quale la popolazione smette di crescere naturalmente. Pochi anni dopo, nel 1984, si era già arrivati ad una media di 1,5 figli per donna, mentre oggi siamo a poco più di 1 figlio per donna, molto al di sotto anche della media dei paesi sviluppati. Un numero di cui dovremmo seriamente preoccuparci.
In contemporanea, con il diminuire dei figli e l’aumento della durata media della vita iniziò anche ad aumentare il peso degli anziani sulla società. Oggi, i giovani in Italia sono quasi diventati una rarità: ci sono molti più pensionati sopra i 65 anni che giovani sotto i 15 anni.
Presto l’Italia potrebbe perfino avere più pensionati di lavoratori. In contemporanea, l’età mediana nel 2018, come dicevamo, è diventata di 48 anni: ci sono tante persone con meno di 48 anni in Italia, quante ce ne sono con più di 48. In sostanza, l’Italia, già di per sé un paese piuttosto abituato ad avere anziani in posizione di potere, si ritrova con una percentuale enorme di cinquantenni, sessantenni, perfino settantenni e ottantenni a capo della politica, dell’economia, delle aziende. Molti di loro sono baby boomers che hanno influenzato la politica e la società italiana sin dagli anni ‘70 e ‘80, e da allora non hanno mai lasciato il poter (perchè avrebbero dovuto lasciarlo, dopo tutto?), né sembrerebbero sul punto di farlo. La meglio gioventù è diventata la dittatura del baby boomer. Ora, altri paesi occidentali lamentano più o meno gli stessi problemi; negli Stati Uniti, per esempio, ad oggi c’è stato un solo Presidente nato dopo il 1946. Eppure in media, le università, le aziende non sono dominate da anziani come in Italia: per esempio, in Italia il 12% degli amministratori delegati ha più di 70 anni, negli Stati Uniti è il 4%, in UK il 2%
Questo però da solo non basterebbe a spiegare la situazione italiana. Dobbiamo infatti considerare anche l’effetto che sembrerebbe avere la cultura italiana, che tende a riverire l’anzianità più delle capacità personali: le carriere in Italia sono raramente veloci e progrediscono linearmente con l’età. Spesso solo quando un’intera classe d’età non è più disponibile per un ruolo, si passa a guardare a classi d’età più giovani: per un anziano dipendere gerarchicamente da un giovane è di solito un affronto. Le attitudini stanno cambiando ma, con il progressivo invecchiamento del paese, ormai gli anziani mantengono le leve del potere anche solo per una semplice questione di numeri.
La politica è al solito lo specchio del paese, e non dovrebbe sorprendere che una nazione di anziani si preoccuperà di tenersi buoni chi in testa ha i capelli bianchi. In Italia la parte principale della spesa pubblica va in sanità pubblica e - soprattutto - per le pensioni degli anziani. Notoriamente, lo stato è molto più avaro con i giovani, spendendo molto poco - per esempio - in assistenza per le giovani coppie o i giovani in generale: d’altronde, i giovani sono di meno dei pensionati, e tendono anche a votare di meno, perché più scoraggiati dalla politica, che spesso vedono come un nemico; senza considerare poi che, come nella maggior parte dei paesi, prima dei 18 anni non possono proprio votare. Che senso avrebbe preoccuparsi di un gruppo di persone da cui non avresti, come politico, nessun ritorno in termini elettorali?
D’altronde la politica ha spesso coccolato i lavoratori più anziani, permettendo loro di mantenere i diritti che avevano acquisito negli anni ‘60 e ‘70 - come il diritto a non poter essere licenziati dalle proprie aziende - scaricando sui giovani l’evidente necessità dell’economia di avere maggiore flessibilità e minori costi. Infatti, la situazione attuale del mercato del lavoro dipende in gran parte dalla crisi economica che ha attanagliato il paese sin dagli anni ‘90. Le aziende italiane si sono ritrovate nella necessità di dover restare competitive di fronte alla concorrenza di prodotti cinesi e dell’Est Europa, oltre che senza la possibilità di svalutare la moneta dopo l’ingresso dell’Italia nell’Euro, la moneta unica europea. Questo ha portato a dover ristrutturare le aziende ma, nell’impossibilità di rimuovere i ben pagati e intoccabili baby boomers - protetti dalla politica italiana - le aziende italiane hanno chiesto alla politica degli strumenti per restare competitive. E la politica glieli ha dati: nella forma di contratti di lavoro precari - ovvero dove è possibile licenziare facilmente, o contratti a termine, a tempo determinato. La difficoltà delle aziende e del mercato del lavoro ha anche portato a comprimere gli stipendi: in generale in Italia gli stipendi non sono mai molto alti, ma per i giovani sono particolarmente bassi, per non parlare dei molti lavori di formazione (come i tirocini) che sono spesso non retribuiti. Vorrei portarvi degli esempi, che potreste forse trovare interessanti, e un po’ sconvolgenti. Un neolaureato italiano guadagna di solito tra i 25 e i 29 mila euro all’anno lordi, se riesce a trovare lavoro (i neolaureati italiani tendono ad avere più difficoltà a trovarlo dei coetanei europei). In Francia diventano 35.000, in Olanda circa 40 mila, in Belgio fino a 45 mila, in Germania anche 52 mila euro, fino all’irragiungibile Svizzera oltre i 70 mila euro all’anno. Aah, 70.000 euro l’anno… beh, ci accontenteremmo anche di meno.
Tutto questo ha creato un mercato del lavoro diviso in due parti: gli assunti prima degli anni ‘90 hanno carriere spesso stabili, lavori a tempo indeterminato con relativamente buoni contratti e buone opportunità di andare in pensione intorno a 60 anni (se non prima); ai giovani - trentenni e ventenni di oggi - si è deciso invece che avrebbero vissuto una vita lavorativa fatta di di contratti rinnovabili annualmente, spesso sottopagati, con prospettive di andare in pensione oltre i 70 anni e con un sistema di calcolo della pensione che sarà molto più punitivo: i baby boomers hanno e avranno pensioni pari a circa l’80% dell’ultimo salario, mentre i giovani oggi si riterrebbero fortunati ad avere una futura pensione capace di coprire il 40-50% del loro stipendio.
La situazione differenziata tra giovani e vecchi per quanto riguarda le pensioni è dovuta alla pesante situazione demografica del paese: in Italia c’è un sistema molto diverso da quello per esempio in vigore negli Stati Uniti. Pochi mettono da parte i loro soldi in risparmi di loro proprietà. In un certo senso, tutti gli italiani contano su una promessa dello Stato: pagano i contributi che servono a finanziare le pensioni di oggi, con l’assicurazione da parte dello stato che, quando toccherà a loro andare in pensione, ci saranno i fondi per farlo. In questo sistema, in sostanza, le pensioni di oggi sono pagate dai lavoratori di oggi, mentre le pensioni di domani saranno pagate dai lavoratori di domani: questo presupporrebbe una situazione demografica stabile, ma ormai sappiamo che in Italia nei prossimi decenni ci saranno molti meno lavoratori e molti più pensionati, è inevitabile. E allora chi dovrebbe pagare esattamente le pensioni dei millennial? Chi mi pagherà la pensione? Vorrei capirlo.
Si aggiunga anche un’ulteriore questione culturale: in Italia, un quarantenne è a volte considerato un “ragazzo”, un trentenne è all’inizio della carriera. Questa tendenza a considerare uomini di mezza età come dei “ragazzi” ne svaluta implicitamente l’importanza per l’economia e la società. In un certo senso è un cane che si morde la coda, dove è difficile capire quale sia la causa e quale l’effetto.
In Italia, i giovani tendono a rimanere a lungo a casa dei genitori, spesso ben oltre i trent’anni. Io sono andato via di casa a 25 anni, che in alcuni paesi sarebbe tardi, ma in Italia è abbastanza presto tutto sommato. Si tratta di un fenomeno che andrebbe studiato meglio e che in realtà è già stato abbastanza studiato, ma non è del tutto compreso: non si capisce del tutto quanto sia un effetto di incentivi e disincentivi economici, e quanto anche una questione culturale. Comunque sia, l’effetto di ciò è che spesso le aziende considerano i giovani sotto i trent’anni come persone che hanno poche spese, e quindi tutto sommato non necessitano di essere ben pagati. Di fronte a stipendi bassi, è difficile per i giovani italiani costruire una vita indipendente, che magari pure vorrebbero farlo: spesso si incolpano i giovani, gli si dà dei “mammoni” (cioè, eccessivamente attaccati alla madre), ma chi sarebbe così pazzo da fare un figlio a 25 anni con un lavoro precario e uno stipendio di 1000 euro al mese? È un circolo vizioso senza fine: gli italiani tendono a sposarsi, a comprare casa, a fare figli molto tardi; tutte tendenze comuni ad altri paesi occidentali, ma che in Italia sono iniziate prima, e hanno avuto effetti più dirompenti.
La società gerontocratica italiana ha anche altri effetti: in generale, gli anziani tendono ad avere più difficoltà ad adottare le nuove tecnologie, in un paese, l’Italia, che in generale è refrattario ai cambiamenti. Per esempio, la diffusione di internet è stata molto più lenta che in altri paesi. Tutto ciò va a diminuire il dinamismo del paese, deprimendo le opportunità economiche per i giovani: i nuovi settori tecnologici, com’è logico, tendono infatti ad impiegare giovani in percentuali superiori ai settori più tradizionali dell’economia.
Le cose non vanno meglio nella cultura: ovunque in Italia - nella radio, nella televisione, nell’editoria, nel settore delle informazioni, nel mondo della produzione culturale, nelle università - dominano anziani e sessantenni. Vorrei poter smentire la scena iniziale del film “La meglio gioventù”, ma in realtà è vero che ancora oggi, l’università italiana è controllata da baroni ultrasessantenni che non pubblicano e non fanno ricerca magari da anni, che sarebbero dovuti andare in pensione anni fa, e che sfruttano il lavoro di giovani ricercatori sottopagati. L’università italiana, quella che dovrebbe essere il settore di punta della ricerca e dell’innovazione nel paese, è un mondo soffocato da una rigida gerarchia di ruoli, per lo più determinati dall’anzianità, non dalle capacità personali.
In definitiva, per i giovani italiani non c’è speranza? Le leve del potere, dell’economia, della cultura saranno sempre in mano degli anziani? Quelli come me dovrebbero rassegnarsi ed emigrare? In generale, forse qualcosa sta cambiando in meglio. L’Italia dopo il Covid ha avuto una buona crescita economica, troppo presto per dire se sarà un trend di medio-lungo periodo. Questo ha portato maggiori opportunità per i giovani: la disoccupazione giovanile sembrerebbe in discesa e l’occupazione giovanile in aumento. Dopo anni di resistenze, il Covid ha significato anche una discontinuità nell’adozione delle tecnologie: dalle carte di credito ai servizi online, dalle videochiamate ai robot, l’Italia ha avuto un cambiamento piuttosto rapido. Alcune università di punta stanno cercando una maggiore apertura con l’estero, in modo da attrarre talenti e - si spera - anche nuove idee. È in corso un colossale passaggio di consegne, con molti baby boomers che stanno effettivamente andando in pensione e abbandonando alcune leve di potere, per ragioni per lo più anagrafiche, anche se questo non vale in settori culturali o nella politica. La bomba ad orologeria della demografia rimane un problema enorme, che potenzialmente potrebbe essere risolto solo con una massiccia immigrazione dall’estero (ma l’immigrazione fa paura a molti italiani e ad alcune forze politiche che li rappresentano), immigrazione che dovrebbe a sua volta essere sostenuta da una robusta crescita economica ottenuta grazie a forti investimenti su nuove tecnologie, formazione e istruzione. Tutte cose che oggi non sembrano all’ordine del giorno.
Purtroppo qualunque miglioramento è per ora molto fragile. Per citare un altro film (questa volta di Giovanni Veronesi), senza profondi cambiamenti nella sua cultura, nell’economia, nelle sue strutture politiche e di potere. Ecco, credo che l’Italia dovrebbe davvero cercare di affrontare seriamente questo problema, anzi, l’avrebbe dovuto fare decenni fa; altrimenti, potrebbe davvero diventare “no country for young men”