L'ITALOAMERICANO 🇮🇹🇺🇸: come parlavano gli immigrati italiani negli USA?
Transcription
Sign up or sign in to keep reading
Tra il 1876 e il 1976 si stima che siano arrivati negli Stati Uniti 5,7 milioni di italiani: ma che lingua parlavano queste persone? Italiano? Italoamericano? È una vera lingua l’italoamericano? Lo vedremo oggi.
Questo è Podcast Italiano, un canale per chi impara o ama la lingua italiana. Se impari l’italiano considera di attivare i sottotitoli. Trovi inoltre la trascrizione completa del video sul mio sito: il link è in descrizione.
Trascrizione con glossario e audio isolato (Podcast Italiano Club)
Abbiamo parlato in video recenti di Lunfardo e di Talian, ovvero di varietà linguistiche, chiamiamole così, nate dal contatto tra lingue d’Italia e lingue parlate in Sud America, rispettivamente in Argentina e Brasile. Continuiamo la serie parlando di italiano e italiani negli Stati Uniti. Sì, perché nel paese dello Zio Sam si è formato un nuovo stereotipo di “italiano”: quello di produzioni iper famose come il Padrino o i Soprano…
[clip]
…ma anche Rocky e i personaggi di Jersey Shore. Potrei citarne tantissime.
[clip]
Sto parlando, insomma, degli italoamericani. L’impatto degli italoamericani sulla cultura statunitense è stato enorme: hanno o avevano origini italiane celebrità come Robert De Niro, Al Pacino, Francis Ford Coppola, Frank Sinatra, Leonardo Di Caprio, Dean Martin, Madonna e potrei continuare per molto tempo, per non parlare delle personalità nel mondo della politica o degli affari. È anche grazie agli italoamericani che la cucina italiana è così importante e conosciuta in tutto il mondo.
[clip]
Pensate alla pizza! E secondo alcuni (e questo fa arrabbiare molti italiani, lo so) ha persino influenzato la stessa cucina italiana.
In questo video vedremo che lingua parlavano queste persone, ma prima parliamo un po’ di immigrazione italiana negli Stati Uniti.
Come ho detto in apertura di video, tra il 1876 e il 1976 sono partiti per gli Stati Uniti ben 5,7 milioni di italiani, principalmente dal Sud Italia, in particolare da Campania, Sicilia e Calabria, regioni al tempo poverissime. Oggi i loro discendenti costituiscono una comunità di oltre 17 milioni di persone, il 5% degli americani. La loro distribuzione non è regolare su tutto il territorio: sono concentrati soprattutto sulla costa Est, in particolare a New York, ma con comunità importanti anche sulla costa Ovest e in altri stati.
La meta di immigrazione che sceglievano gli italiani dipendeva dal momento in cui partivano. Chi arrivava negli anni ’20 tendeva a scegliere New York e dintorni, mentre chi emigrava dopo la seconda guerra mondiale preferiva la California.
Come spesso fanno gli immigrati, gli italiani creavano vere e proprie comunità in quartieri, spesso poverissimi e degradati, principalmente sulle coste del paese. A New York, ad esempio, c'erano due quartieri italiani: uno è la celebre Little Italy newyorchese; l'altro era East Harlem, quartiere di Manhattan. Ad East Harlem gli italiani si stabilirono negli anni ‘20 e furono la maggioranza fino agli anni ‘50, quando furono poi superati in quantità dagli immigrati latinoamericani, oggi si chiama “Spanish Harlem”. La comunità più importante al di fuori delle coste erano quella della Florida e quella di Chicago, famosa tra l’altro per un certo al Capone, mai sentito?
Ok, ma che lingua parlavano queste persone? Ancora un attimo di pazienza.
Prima infatti vorrei parlare di un concetto che non ho menzionato nei video precedenti di questa serie, ma che è importante: la fedeltà linguistica. Con questo termine ci si riferisce alla capacità di una lingua parlata da una comunità di immigrati di “resistere” nel paese di arrivo, dove la lingua parlata dalla maggioranza delle persone è un’altra: in altre parole, l’atteggiamento che hanno i parlanti nei confronti della lingua “di famiglia”, potremmo dire.
Vediamo un esempio moderno molto significativo. Negli Stati Uniti esiste una gigantesca comunità latinoamericana che parla spagnolo. La prima generazione di immigrati parla naturalmente spagnolo, la seconda generazione padroneggia sia lo spagnolo che l'inglese e la terza generazione tende a perdere lo spagnolo. La prima generazione ha quindi un alto grado di fedeltà linguistica, la seconda ha una fedeltà inferiore e arrivati alla terza la fedeltà linguistica è quasi nulla.
Il caso degli italiani negli Stati Uniti è simile.
La prima generazione aveva una forte fedeltà alla propria lingua, un po’ come nel caso anche del come del Talian e del Lunfardo. Non ripeterò per l’ennesima volta che gli immigrati tipicamente non parlavano italiano come lo intendiamo oggi, ma piuttosto la loro lingua regionale, quelli che in Italiano vengono chiamati “dialetti”... ok, lo ripeto, scusate. La lingua regionale più parlata tra gli immigrati italiani negli Stati Uniti era il napoletano, inteso non solo come lingua di Napoli e della regione della Campania, ma tutto l’insieme di dialetti del cosiddetto Alto-Sud, quindi una zona molto vasta.
La fedeltà linguistica che mantennero nei confronti della loro lingua fece sì che questi immigrati di prima generazione non riuscissero mai a padroneggiare l’inglese, il che li costrinse a formare legami molto stretti con gli altri membri della comunità.
Tuttavia, tra questi nuovi arrivati c’era una minoranza che aveva un livello di istruzione superiore. Vuoi perché avevano studiato più a lungo in Italia, vuoi perché erano arrivati giovanissimi nel Paese a stelle e strisce, queste persone erano bilingui o anche trilingui: sapevano la lingua di origine (della famiglia), l’inglese ovviamente, e molte volte anche un italiano popolare (una sorta di mix tra quello che pensavano fosse italiano e la loro lingua regionale, con influenze anche delle altre lingue regionali parlate nella comunità).
Gli immigrati che avevano acquisito una certa padronanza dell’inglese erano indispensabili per la comunità, poiché fungevano da mediatori tra i nuovi arrivati e il mondo che li circondava.
La seconda generazione riceva un'istruzione formale nel nuovo paese, completamente in inglese naturalmente, che diventava la L1, cioè la lingua più importante e meglio padroneggiata. Oltre ad andare a scuola in inglese, facevano amicizia in inglese, andavano al cinema in inglese, ordinavano da McDonald's e ascoltavano musica country nel loro SUV mentre agitavano corde per cacciare bisonti in Colorado in inglese. Ok, forse mi sono lasciato prendere la mano dagli stereotipi… Comunque, questo è uno scenario molto comune ovunque ci siano discendenti di immigrati: cioè, che nel corso delle generazioni la fedeltà linguistica diminuisca.
C’è un testo molto bello e significativo, seppur triste, in un romanzo di Jerre Mangione, scrittore italo-americano, che ci aiuta a capire come poteva sentirsi un figlio di immigrati italiani. La traduzione è mia.
L’insistenza di mia madre affinché a casa parlassimo solo italiano tracciava una linea netta che separava la nostra esistenza in casa da quella nel mondo esterno. A poco a poco abbiamo iniziato a comprendere che eravamo italiani in casa e americani (qualunque cosa volessere dire) fuori. [...] La differenza che più mi addolorava era quella del linguaggio, probabilmente perché ne ero più spesso consapevole. Da bambino provavo un imbarazzo terribile ogni volta che mia madre mi chiamava in italiano mentre giocavo per strada, con tutti i miei amichetti che ascoltavano; o quando mi comprava dei vestiti e litigava sul prezzo nel suo inglese stentato.
Le donne parlavano meno la lingua di famiglia rispetto agli uomini, che la conservavano meglio. Questo fenomeno è curioso, proprio perché è esattamente ciò che ci aspettiamo: in generale, infatti, il linguaggio delle donne tende ad avvicinarsi maggiormente alle varietà di prestigio. L’inglese, in questo caso.
L'uso di varietà italiane o regionali in casa, come prevedibile, continua a diminuire drasticamente con il passare delle generazioni. Nel 1980, il 12% degli italoamericani negli Stati Uniti affermava di parlare in casa l’italiano (qualunque cosa questo volesse dire esattamente) e nel 2000 solo il 6,4%. Le cose vanno un po’ meglio nello stato di New York, dove si è stabilita la maggioranza degli italiani e che, nel 2000, contava il 10,7% degli italofoni del Paese. Se vivete da quelle parti fatemi sapere qual è la vostra impressione.
Quando gli italiani arrivavano negli Stati Uniti, la situazione era simile a quella che abbiamo visto nel caso dell’Argentina o del Brasile: parlavano la lingua della propria regione italiana e non era strano che si stabilissero in zone o quartieri diversi a seconda del loro luogo di provenienza.
Come di solito accade nei casi in cui gli immigrati non sono isolati, ma formano delle comunità (come nel caso del Talian, in Brasile, dove gli immigrati addirittura fondarono le proprie città e paesi) tra i nuovi arrivati si creò un modo di parlare peculiare che, oltre a mescolare le lingue regionali, tipicamente meridionali come abbiamo visto, prendeva a prestito anche parole inglesi adattate foneticamente.
Nella prima generazione di migranti sono stati osservati questi fenomeni. E attenzione, non si tratta di fenomeni stabili e diffusi universalmente, ma di tendenze che stavano emergendo. Vediamone alcune:
La [w] poteva diventare [v] o [vu]
“New York” diventava “Neviork”
“water” diventava “vuora”
“white” > “vuati”
Sebbene esistano anche casi di [w] che diventa [gw]
“What do you want?” → “Quario guanne?”
“Why?” che diventa “Guai?”
Poi c’è [ð] e [θ] che diventano [d] e [t] rispettivamente, quindi “that” che diventa “dat” e “nothing” che diventa qualcosa come “nattingo”.
La [h] scompare: dopotutto non esiste né in italiano, né nelle lingue italiane, quindi “head” diventava “edde”.
La [r] si pronunciava all’italiana: “alright” era “orrait”.
Le consonanti sorde finali venivano eliminate: “what” diventava “guá”, “but” era “bá”.
La [g] diventava [k]: “good morning” → “cummoni”.
Per quanto riguarda il sistema vocalico, nella prima generazione si aggiungeva sempre una vocale alla fine delle parole che terminavano in consonante: dopo tutto, le consonanti alla fine di una parola sono innaturali in italiano, come sapete. Quindi “ticket” diventava “tiketta”, “mistake” era “mistekku”, “ice-cream” era “aiscrima”
Si trovano anche alcune vocali epentetiche, cioè, suoni vocalici inseriti tra consonanti, come la famosissima “Brooklyin” che diventa “Broccolino” o “business” che diventa “bisiniss”.
Vediamo un esempio di come veniva trascritta una conversazione in inglese tra due immigrati di prima generazione negli Stati Uniti. Provo a leggerla al meglio delle mie abilità, anche perché io sono del nord e quindi queste sono varietà influenzate più dai dialetti del sud. Inoltre, non è una trascrizione fonetica quindi non è chiaro come bisognerebbe pronunciare tutte le parole. Comunque…
Jeh! Com’in! Uanne dis?
– No, mi uante giuste disse
– Bai dise bai dette (…)
– Se Tonì dont iu forchette
Dezzolrraite verso ’e sette
– Uatte? Seven tu moce
– dezolrraite – Ghi mi a brasce/na Baschetta
Tra l’altro da questo dialogo si vede che era anche comune il codeswitching, o commutazione di codice: cioè, passare da una lingua all’altra, da inglese a “italiano” in senso ampio del termine.
Vediamo ora alcune parole comuni che usavano gli italoamericani e che avevano adattato dall’inglese:
“car” diventa “carro”
“job” diventa “giobba” al posto di “lavoro”
“store” diventa “storo” (al posto di “negozio”)
“furniture” “fornitura” al posto di “mobili”
“factory” “fattoria” al posto di “fabbrica”
“hurry up” diventa “orrioppo”
“boulevard” diventa “bulevardo”
“subway” diventa “sobue”
“drive” “draivare”
“park” “parcare”
ma anche “basement” “basamento”
“ice-cream” “aiscrima”, come abbiamo visto
“beef” diventa “biffa”
“show” “sciò”
e “moving picture”, cioè un film, una pellicola, diventa “muvin picciu”
Se siete voi stessi italoamericani, fatemi sapere nei commenti magari altre parole che si usavano nella vostra famiglia, sono molto curioso.
[clip]
In definitiva, che cos’è l’italoamericano? Un pidgin, un dialetto, una nuova lingua, un gergo?
C’è chi lo considera un creolo, anche se ciò è poco probabile. Un creolo è una lingua risultante dalla mescolanza di lingue diverse che, aspetto importante, ha parlanti nativi. Gli immigrati di prima generazione non erano madrelingua in “italoamericano” e la seconda generazione di immigrati già padroneggiava perfettamente due (o come abbiamo visto, anche tre) sistemi diversi: l’inglese da un lato, la lingua regionale e in alcuni casi anche questo italiano popolare dall’altro.
Alcuni autori, come Lidia Martella, considerano la definizione di pidgin come più coerente. Un pidgin è una varietà di lingua semplificata nata dal contatto di una lingua con una lingua indigena di un posto, che non ha né regole grammaticali ben definite, né un lessico stabile.
Gli italiani non erano un gruppo linguisticamente omogeneo, dovettero adattare il loro modo di parlare e aggiungervi la componente anglofona. Nell'italo-americano di prima generazione c’è stata una semplificazione della sintassi, un'approssimazione fonetica tra lingue diverse e, perché no, una sorta di formazione di una koinè, un compromesso tra diverse parlate di italiani in America. Potremmo chiamarlo, in effetti, un pidgin, ma un pidgin di breve durata, durato una sola generazione e che finì per influenzare, per confluire in una varietà dell'inglese parlato dalla seconda generazione, che ne adottò però solo alcune caratteristiche, trasferendole all’interno della lingua che loro padroneggiavano perfettamente: l’inglese, appunto.
La seconda generazione, nata intorno agli anni ‘50, era già completamente bilingue: dominava l’inglese e la lingua di famiglia (e a volte anche quell'italiano popolare di cui parlavamo). Nonostante ciò, nell’inglese di queste persone rimanevano alcuni tratti della prima generazione.
La scomparsa del suono iniziale [h]: “ham” diventava magari “am”.
La R non si pronunciava nella posizione finale di una sillaba o di una parola: “garbage” diventava [ˈɡaːbɪd͜ʒ].
Queste erano le due caratteristiche principali più comuni, anche se, in misura minore, se ne potrebbero trovare anche altre, come [ð] e [θ] che diventano [d] e [t] rispettivamente.
[clip]
Ma forse la cosa più interessante è che questi parlanti mantenevano in inglese un certo lessico italiano, soprattutto in alcuni campi semantici specifici: nella gastronomia, negli insulti e nelle offese, nei proverbi e negli auguri, che alle orecchie di un italiano sembrano a tutti gli effetti parole di dialetti del Sud Italia.
[clip]
Alcuni esempi:
[bɹəˈʒut] che sarebbe “prosciutto”
[fəˈzuːɬ], cioè “fagioli” in napoletano
[muzzərellə], cioè “mozzarella”
[ɹɪˈɡɔt], cioè “ricotta”
[sɑˈsiːʦ̮], cioè “salsiccia”
[vɪsˈɡaːd], qualcosa tipo “biscotto”
[ɡabəˈdaʦ̮], cioè “capa tosta”, una persona con la testa dura, testarda
[ɡaˈvɔːn], cioè “cafone”, una persona maleducata
[clip]
[ɡʊmˈbɑː], cioè “compare”
[clip]
…e molte altre.
[clip]
Arriviamo quindi all’inglese della terza generazione, quello degli italoamericani nati intorno agli anni ‘80 e la cui lingua madre è, per la maggioranza di loro, l'inglese. Se la seconda generazione parlava inglese con alcuni tratti “italiani”, nella terza generazione questo non succede più; anzi, accade esattamente il contrario di quanto accadeva nella prima: i pochi che sanno parlare “italiano” o “italoamericano” o “italiano popolare” eccetera lo fanno con una pronuncia e un vocabolario molto influenzati dall’inglese.
Ancora oggi, però, è possibile distinguere un italo-americano da due parole chiave: salute! e capisci? invece di “cheers!” e “you know?”.
Nel corso degli anni ho avuto modo di sentire tante storie molto simili da miei studenti italoamericani: avendo iniziato a imparare loro l’italiano “standard”, magari per riscoprire le proprie origini in un certo senso, si sono resi conto che questo è in realtà diverso dalla lingua dei loro genitori, nonni o bisnonni. Quello che credevano fosse “italiano” in realtà era una varietà regionale o su base regionale, quasi sempre del Sud Italia. Come sempre mi piacerebbe molto leggere le vostre storie nei commenti. Qual è la storia dei vostri antenati italiani? Come parlavano? Vi ricordate parole o espressioni che usavano? Avete dei ricordi legati alle tradizioni italiane della vostra famiglia? Fatemi sapere, vi leggo nei commenti. E per chi di voi impara l’italiano ho creato da tempo un ebook gratis su come raggiungere un livello avanzato in questa lingua. L’hanno scaricato migliaia di persone ed è piaciuto molto, quindi se non l’hai già fatto, scaricalo, il link è in descrizione. Ciao.
Trascrizione con glossario e audio isolato (Podcast Italiano Club)
Episodio di Tre Parole collegato (PI Club)