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Perché NON parlo dialetto? [Italian, with subs]

November 27, 2020

Transcription

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Piacere, mi chiamo Davide, sono nato nel 1995 a Torino e non parlo il dialetto.

Nell’Italia del 2020,come abbiamo visto in questo video, non è più una cosa strana: da quando l’italiano è una lingua davvero parlata - quindi da circa 60 anni - è cresciuto in Italia il numero di persone che usano sempre e solo l’italiano, come me.

E perché non parlo dialetto? Lo vedremo tra poco.

Trascrizione PDF con glossario audio isolato (PI Club)

Benvenuti su Podcast Italiano, un progetto per aiutarvi ad imparare l’italiano, se siete stranieri, o per farvi sentire cose interessanti sulla nostra lingua, se siete italiani.

Ricordo anche per chi impara l’italiano con i miei video che se diventate membri del mio Club su Patreon avrete accesso, tra le altre cose, a un PDF che contiene la trascrizione dei miei video con le parole difficili spiegate in italiano e tradotte in inglese.

Qui trovate il link.

Ma dicevo, non parlo dialetto per due ragioni: la prima ragione è che anche i miei genitori non parlano il dialetto piemontese (cioè quello della nostra regione), o meglio, la variante torinese del piemontese.

Non lo parlano perché i loro genitori (cioè, i miei nonni) non volevano che lo parlassero.

I miei nonni, infatti, pensavano che il dialetto fosse qualcosa di inferiore e inutile, anzi addirittura dannoso, e che non andasse insegnato ai bambini perché sarebbe stato un ostacolo nell’apprendimento dell’italiano.

Oggi sappiamo che questa idea è falsa: un bambino può imparare fino a quattro lingue senza grandi problemi.

I miei nonni, tra l’altro, hanno potuto “rinunciare” (tra virgolette) a parlare dialetto con i miei genitori perché sapevano già l’italiano, tutti e quattro, il che non era una cosa molto comune tra gli italiani nati negli anni ’20 e ’30 come loro.

Il dialetto continuavano a usarlo con altre persone (i genitori di mia madre lo usavano anche tra di loro; i nonni di mio padre, cioè i miei bisnonni parlavano in dialetto a mio padre, e lui gli rispondeva in italiano); quindi i miei avevano comunque numerose occasioni di ascoltarlo e per questo ancora oggi lo capiscono perfettamente.

Poi ci sono io, che sono un gradino sotto nell’albero genealogico; io il piemontese l’ho sentito parlare poco (un pochino da mia nonna, ma sempre con altre persone; mai direttamente con me, e di conseguenza non solo non lo so parlare, ma anche la mia comprensione è scarsa; capisco qualcosa, ma più che altro grazie alle somiglianze con l’italiano e il francese.

La seconda ragione ha a che fare con l’ambiente sociale.

Qui a Torino e nelle città vicine il dialetto è di fatto scomparso tra i giovani.

Questo è dovuto in primo luogo al fatto che verso Torino c’è stata una forte immigrazione da altre regioni: dal Veneto, dal Centro e dal Sud; a Torino l’industria era molto sviluppata e ha attratto numerose persone in cerca di lavoro, che parlavano di norma il loro dialetto (e magari un italiano di base); per gli immigrati la lingua franca, con cui comunicare tra di loro e con i torinesi , diciamo, “autoctoni” era l’italiano, non il torinese.

L’immigrazione cambiò molto la composizione della popolazione di Torino: ci fu un forte rimescolamento demografico e di conseguenza anche linguistico.

I figli e i nipoti degli immigrati non imparavano il dialetto, o i dialetti; perché se hai un genitore piemontese e uno, per esempio, calabrese, e tra di loro e con te parlano in italiano, anche tu imparerai e userai attivamente solo l’italiano.

A scuola, poi, avevo a che fare con compagni di classe che erano il prodotto di questo rimescolamento sociolinguistico e, come me, parlavano quindi solamente italiano.

Per questi motivi non so il dialetto.

Qualcuno potrebbe dire… chissenefrega? A che ti serve, se puoi comunicare con tutti in italiano? Da un lato è vero: da un punto di vista meramente pragmatico non mi “serve”; detto questo, secondo me è un peccato non sapere il dialetto, per vari motivi.

Prima facciamo questa considerazione: il “dialetto” (come lo intendiamo in Italia) per un linguista è… una lingua, cioè, un sistema di comunicazione verbale presente in una comunità umana, con una fonologia, un lessico, una sintassi… insomma, una grammatica.

Attenzione, non “grammatica” nel senso di “manuale di grammatica”.

Una lingua può anche non essere codificata, può anche non avere un’ortografia ed essere solamente orale, ma rimane un codice con delle regole precise che si possono studiare – e infatti vengono studiate.

Quindi dal latino storicamente derivano tante lingue, che forse dovremmo chiamare “lingue regionali”: il siciliano, il napoletano, il piemontese, il veneto, ecc.

Una di queste lingue in Italia è il fiorentino, che per secoli si è evoluto come le altre lingue italiane ed è diventato a un certo punto, per ragioni storiche e di prestigio letterario, “LA lingua”, cioè “la lingua nazionale”, l’italiano: tutte le altre lingue regionali hanno quindi preso il nome tradizionale di “dialetti”, con cui li conosciamo ancora oggi, che è un termine che confonde un po’, perché porta alcuni a pensare che i dialetti derivino dall’italiano, oppure siano versione corrotte dell’italiano, ma non è così.

Semmai sono modi, diciamo, “sbagliati”, o meglio “innovativi”, di parlare il latino, così come lo è l’italiano.

A proposito: nella linguistica moderna un “dialetto” sarebbe una varietà di una lingua.

Quindi il siciliano è una lingua, come anche l’italiano; il palermitano, il catanese, l’agrigentino sono dei dialetti del siciliano, differenti tra loro ma abbastanza simili da essere intercomprensibili (cioè un palermitano è in grado di capire abbastanza bene un catanese).

Ma comunemente in Italia usiamo la parola “dialetto” intendendo le “lingue regionali”.

La situazione italiana nella linguistica si chiama “diglossia”, che significa, per semplificare, che una persona (non io) conosce generalmente due lingue.

Queste due lingue però non si usano allo stesso modo, non hanno lo stesse funzioni (se no parleremmo di bilinguismo e non diglossia); si usano in situazioni diverse(quindi, per esempio, usiamo il “dialetto” in famiglia e con gli amici, e l’italiano a scuola e al lavoro).

Comunque, da adesso in poi userò il termine “dialetto” nel senso di “lingua regionale parlata in italia”, quindi siciliano, piemontese, ecc.

ecc. anche se sono dell’idea che sia un termine che ha connotazione un po’ dispregiativa o comunque un po’ sminuente.

Se le chiamassimo tutte “lingue regionali” forse la percezione che abbiamo di esse cambierebbe.

Quindi i motivi –torniamo ai motivi - per cui è una buona cosa imparare e tramandare un dialetto- ma anche le lingue regionali dei vostri paesi se siete stranieri - sono in gran parte gli stessi per cui vale la pena di conoscere una qualsiasi lingua straniera.

Prima di tutto una lingua è affascinante di per sé: io amo le lingue straniere ed è forse anche per questo che riconosco la bellezza intrinseca dei nostri dialetti (cioè della grammatica, del lessico, della fonologia), prescindendo da quanto siano davvero “utili”.

Cioè, sapersi esprimere in una lingua (o almeno comprenderla) è qualcosa di bello di per sé.

Una lingua è anche portatrice della cultura di un popolo, con la sua saggezza popolare, le sue tradizioni, la sua mentalità, la sua musica, la sua letteratura (in Italia abbiamo una forte tradizione letteraria dialettale).

Non dimentichiamo che una lingua è sempre collegata a una cultura.

E infine, almeno qui in Italia, il dialetto è percepito come più espressivo.

Ed è percepito in questo modo perché solitamente è legato (o, a volte, relegato) alla sfera affettiva, personale, famigliare.

Ed è secondo me bello avere una lingua alternativa, una “lingua del cuore” da alternare a una lingua “ufficiale”; è come poter cambiarsi i vestiti, togliere l’abito formale emettere quello informale (cosa che io invece posso fare solo cambiando registro, cioè passare da lingua forma o informale, ma sempre all’interno dell’italiano; non è la stessa cosa però).

Anche a me piacerebbe poter fare code-switching (passare da una lingua a un altra), magari per fare una battuta, oppure per esprimere la rabbia o qualsiasi emozione con quelli per salvaguardarli.

Ma come si fa? C’è chi propone di insegnare i dialetti a scuola, ma non è facile.

Prima di tutto, quale dialetto insegni? Cioè, i dialetti sono di fatto tantissimi punti di un continuum linguistico.

Non dobbiamo immaginarci i dialetti come dei colori nettamente separati (bianco, blu, rosso), ma come una gamma di colori con una miriade di sfumature.

Basta spostarsi da un paesino a quello successivo perché qualcosa cambi nella lingua locale (una parola, una regola grammaticale, un suono) e più ti sposti più i cambiamenti si accumulano, finché non arrivi a un dialetto che è così diverso dal tuo (e quindi difficile da capire) che dici: “no, questa è una cosa diversa dalla mia”.

E quindi quale punto di questa gamma di colori insegniamo a scuola? Potremmo forse scegliere una variante standard, magari una che ha una tradizione letteraria molto ricca, o quella del capoluogo della regione, ma anche questo può essere problematico.

Per fare un esempio chiaro: le lingue (o dialetti) che si parlano nella Calabria del nord sono molto diversi da quelli della Calabria sud, che sono tipologicamente più affini al siciliano; ma la regione amministrativa è la stessa, cioè la Calabria.

Se scegli quindi una varietà unica e standard da insegnare in tutte le scuole della Calabria qualcuno si può giustamente arrabbiare; sarebbe ingiusto imporre a una classe di studenti di Cosenza il calabrese di Reggio Calabria.

Magari gli studenti di Cosenza sanno già naturalmente il dialetto di Cosenza e tu gli stai insegnando un altro dialetto di un altro posto, che è molto diverso.

Ma prima ancora di scegliere quale, o quanti dialetti diversi insegnare e fare questi discorsi, chiediamoci se è un uso davvero saggio del tempo che abbiamo a scuola.

Le cose importanti da imparare sono tante e il tempo non basta mai.

Perché insegnare il dialetto e non, che ne so, programmazione? Oppure fare più matematica? O più inglese? Il tempo è limitato e, per forza di cose, ci sono delle priorità.

Forse i dialetti non sono una priorità.

E poi in tutta onestà non credo neanche che la scuola farebbe un buon lavoro.

Pensate all’inglese, una lingua che culturalmente è predominante, e a cui a scuola dedichiamo anni di studio, per poi avere i risultati scadenti che vediamo tutti.

E poi, quale sarebbe la motivazione da parte degli studenti, che spesso non sono motivati nemmeno a imparare l’inglese (e dovrebbero esserlo, vista la cultura angloamericana che ci circonda)? Io credo che ai ragazzi semplicemente non interesserebbe; e sappiamo bene (o almeno io lo so per esperienza personale) che se non hai interesse forte nell’imparare una lingua, non la imparerai mai.

Ora, dicendo così sembra quasi che i giovani cacia espressiva che ti dà il dialetto.

Bene, tutti questi motivi secondo me bastano a giustificare la conoscenza di un dialetto (o di una lingua minoritaria), ma anche gli sforzi da fare italiani non sappiano MAI i dialetti e debbano impararli sempre da zero, come una lingua straniera, il che non è affatto vero.

È così in alcune zone d’Italia, nei centri urbani come Torino, appunto, o Milano, appunto, ma non è così per esempio in Veneto e in Campania, due regioni dove i dialetti si parlano molto ancora oggi, anche tra i giovani.

Bene, io penso che sarebbe importante fare leva sulla conoscenza del dialetto che molti hanno naturalmente, incoraggiandone l’uso, spiegando perché è importante tramandarlo ai figli, organizzando iniziative incentrate sul dialetto, ecc.ecc. ; cioè, far sì che non avvenga quella perdita culturale(perché dialetto è cultura) che è avvenuta nel passaggio tra i miei nonni e me.

Forse il ruolo della scuola potrebbe essere di spiegare (come sto provando a fare io) i motivi per cui è bello sapere il dialetto e sfatare anche alcuni miti di lunga data: il mito secondo cui i dialetti sono versioni rozze dell’italiano - non è così, i dialetti sono lingue sorelle dell’italiano, l’abbiamo visto; oppure il mito secondo cui ci sarebbero dialetti di serie A e di serie B, e quindi il napoletano è una lingua e, che ne so, l’umbro no: entrambe sono lingue, almeno nell’accezione della linguistica moderna: hanno una grammatica, una fonologia, un lessico, ecc.

Sminuire un dialetto significa contribuire alla sua scomparsa, perché chi lo conosce non lo percepirà come qualcosa degno di essere conservato e quindi non lo parlerà più.

C’è poi una cosa che invece la scuola NON dovrebbe fare (e in passato ha fatto) ovvero demonizzare i dialetti, contribuire all’idea falsa secondo cui sarebbero qualcosa d di inferiore rispetto all’italiano.

Al contrario, la scuola dovrebbe far apprezzare le differenze e somiglianze tra italiano e dialetto; far riflettere sull’uso del dialetto nella propria famiglia o con gli amici; spiegare l’influenza del dialetto sull’italiano regionale, per esempio, del napoletano, sull’italiano regionale parlato a Napoli (a proposito, sono due cose ben diverse e spesso confuse: l’italiano regionale è influenzato dal dialetto, ma non è il dialetto).

- Infine – e qui mi rivolgo a tutti voi – servono contenuti.

Sapete, io penso che se esistono contenuti interessanti in una lingua, con la giusta motivazione e il giusto sforzo quella lingua la possiamo imparare.

Questo è il senso del mio progetto.

Ma se le lingue grandi hanno un sacco di contenuti le lingue piccole non ne hanno quasi: se io volessi imparare il piemontese non avrei semplicemente abbastanza contenuti, o contenuti abbastanza interessanti per me.

L’unico modo di impararlo sarebbe passare tempo con persone che lo parlano, che nel mio caso purtroppo non sarebbe molto fattibile.

Servono quindi persone che creino contenuti, canali YouTube, podcast, blog, profili Instagram, chi più ne ha più ne metta.

- E questo vale anche per le lingue minoritarie di qualsiasi paese del mondo.

Se siete stranieri e conoscete una lingua minoritaria – oppure conoscete qualcuno che conosce una lingua minoritaria – tutto ciò che ho detto vale anche per voi.

Il mio appello a tutti è: cerchiamo di salvaguardare le lingue minoritarie, cerchiamo di parlarle, di scriverle, di creare contenuti in queste lingue, di tramandarle ai figli, così che non succeda quello che è avvenuto nel mio caso.

Perché ogni lingua che muore è un dramma, è una perdita, una perdita di un patrimonio dell’umanità.

- Fatemi sapere se siete d’accordo con me oppure no.

Ho poi alcune domande per voi.

Conoscete un dialetto o una lingua minoritaria? Come lo usate? In che contesti? Quali emozioni e anche associazioni mentali evoca in voi? Se vi va, potete scrivere un commento nel vostro dialetto (o lingua minoritaria), far vedere un po’ a tutti, diciamo, che aspetto ha.

Ecco, magari potete tradurre il messaggio anche in italiano, così capiamo più o meno tutti.

Per il resto, ringrazio tutte le persone che vedete scorrere ai lati: sono i membri del Podcast Italiano Club, che sostengono questo progetto e ottengono contenuti bonus, come la trascrizione PDF con le parole difficili per ogni video, un podcast esclusivo (che ha già sessanta episodi), l’accesso a un gruppo Telegram dove potete comunicare con me e altri membri del Club esclusivamente in italiano, e tanto altro.

Uno dei membri tra l’altro è il grande Hagay, che mi ha dato una grande mano con questo video, quindi grazie Hagay.

Tra l’altro qualche giorno fa era il suo compleanno quindi… se sei arrivato fino a questo punto del video lascia un commento in cui scrivi “Auguri Hagay”.

Vediamo che pensano le altre persone che non sono arrivate fin qui.

 

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