La bufala sulle lingue - Italian advanced listening (with transcription)
Trascrizione
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Benvenuti su Podcast Italiano. Questo è un episodio di livello avanzato. Vi ricordo che podcastitaliano.com troverete la trascrizione integrale dell’episodio con la traduzione delle parole e delle strutture più difficili. Buon ascolto!
In questo episodio di livello avanzato voglio affrontare una questione che nel mondo delle lingue e della linguistica è sempre di moda, ovvero: è vero che la nostra madrelingua influenza la nostra visione del mondo?
Ho deciso di scrivere questo episodio dopo aver letto il libro “The Language Hoax” di John McWhorther, il mio linguista in assoluto preferito, conduttore di un podcast eccezionale chiamato Lexicon Valley e autore di numerosi libri altrettanto interessanti. Come potete intuire dal titolo la posizione di McWhorther è molto netta: questa idea è una vera e propria bufala (hoax), che peraltro (besides, furthermore) circola da molto tempo e periodicamente si ripresenta (shows up again) sotto forma di articoli acchiappa-click (click-bait) su internet e sulle testate giornalistiche (news media, newspapers) online.
Questa teoria è conosciuta come “ipotesi di Sapir-Whorf”, dal nome dei due studiosi, Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, che per primi ne hanno parlato negli anni venti, ma è anche nota come “ipotesi della relatività linguistica”. Secondo Whorf (e cito):”
Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo le attribuiamo significati, in gran parte perché siamo parti in causa in un accordo per organizzarla in questo modo; un accordo che resta in piedi all’interno della nostra comunità di linguaggio ed è codificato negli schemi della nostra lingua”
Da questa citazione si evince (we can deduce, infer) l’idea centrale di Whorf, ovvero che la nostra percezione della realtà varia a seconda della lingua che parliamo.
Whorf parlò, per esempio, degli Hopi, una popolazione nativa americana , la cui lingua, a sua detta (=secondo lui, according to him), non aveva modo di esprimere il tempo passato e futuro. La conclusione a cui giunse Whorf era che, a differenza delle lingue di matrice europea (of a european nature), gli Hopi avessero una percezione del tempo non lineare, ma ciclica. E questo era causato da questa peculiarità della loro lingua, che, appunto, influenzava la loro visione del mondo. Si dà il caso che Whorf non conoscesse bene la lingua Hopi, che, in realtà, è assolutamente in grado di esprimere il concetto di passato e di futuro. Ma anche se così non fosse (if that weren’t the case): è corretta l’idea secondo la quale le caratteristiche della grammatica di una lingua fanno sì che i suoi parlanti percepiscano il mondo in un modo completamente diverso? La risposta di McWhorther è, come avrete capito, no. È sicuramente un’idea attraente, molto “hippie” in un certo senso, ma… si tratta, ahimè, di una bufala.
Il fatto che, per esempio, la lingua russa abbia un sistema estremamente complicato per esprimere quello che in tante lingue europee sarebbe un verbo solo, ovvero “andare”, non significa che i russi percepiscano l’idea di movimento in una maniera più precisa. Semplicemente la loro lingua non lascia al contesto alcune informazioni ma, al contrario, obbliga i suoi parlanti ad esplicitarle (make them explicit). “Andare a piedi” e “andare con un mezzo di trasporto” sono due verbi diversi in russo, ma questo non significa che un parlante madrelingua italiano o francese che senta la frase “sono andato in Australia” ha dubbi sulla natura del movimento… ovviamente, chiunque abbia pronunciato questa frase in Australia non ci è andato a piedi, e il contesto ci aiuta a capirlo.
Per fare un altro esempio: esiste una lingua parlata in Amazzonia chiamata Tuyuka che possiede una caratteristica grammaticale nota come “evidential marker”. Un evidential marker è un indicatore che ci aiuta a capire la natura di una data informazione. Nella lingua Tuyuka funziona così: alla fine di ogni affermazione è necessario aggiungere un suffisso che indica come siamo venuti a conoscenza (how we became aware) di questa informazione e se siamo sicuri che sia vera o no. Esiste un suffisso che significa “ho sentito”, uno che significato “ho visto”, ce n’è uno per “apparentemente, ma non ne sono sicuro” e uno per “si dice che”. Se accettassimo l’ipotesi Sapir-Whorf potremmo concludere che i Tuyuka debbano essere un popolo per natura scettico, meno ingenuo (naive: ATTENZIONE! non “ingenious”! è un falso amico) di altri. Infatti la loro lingua li obbliga a esplicitare la fonte di qualsiasi informazione decidano di comunicare. Per quanto questa conclusione possa essere allettante (enticing), spiega McWhorther, pensiamo alle lingue europee. Nessuna lingua europea contiene gli evidential markers, tranne il bulgaro. I bulgari sono per caso un popolo più scettico degli altri popoli europei? Più scettici dei greci, inventori della filosofia in cui lo scetticismo è una qualità fondamentale? Un’affermazione del genere è evidentemente strampalata (outlandish, preposterous). I bulgari non sono in alcun modo più scettici dei Greci o di altri popoli europei.
Nel libro McWhorther apporta tantissimi esempi (provides many examples) che, a mio modo di vedere, dimostrano in maniera chiara e netta la veridicità (veracity, truthfulness) della sua posizione.
Tutti noi essere umani percepiamo il mondo essenzialmente allo stesso modo. È sì vero che (while indeed… – followed by “ma” later on) degli esperimenti hanno dimostrato qualche minima differenza riconducibile alle differenze linguistiche, ma si tratta di esperimenti estremamente artificiali che, per esempio, mostrano differenze di millisecondi nel premere un certo bottone. Minuscole differenze di questa natura non rappresentano certo una “visione del mondo” e non hanno ripercussioni al di là del laboratorio.
È innegabile (undeniable) che la cultura influenzi la lingua per quanto riguarda la terminologia. Lingue che possiedono vari pronomi da scegliere in base alla classe sociale del nostro interlocutore (come il coreano) lo dimostrano. Gli eschimesi hanno più parole per descrivere la neve (anche se, probabilmente non centinaia come secondo una famosa leggenda urbana) perché… beh, vivono circondati dalla neve. Nulla di così strano e inaspettato. Ma affermare che le caratteristiche di una lingua influenzano il modo in cui pensiamo e la nostra visione del mondo è un argomento molto pericoloso. Anche perché spesso è motivato da un sentimento di accondiscendenza (my bad – I was influenced by the English “condescending”, which would be “paternalistico in Italian. “accondiscendenza” means “compliance”): si vuole dimostrare che popoli o tribù in regioni remote del mondo non sono inferiori a noi europei o nord-americani e che, in realtà, hanno un modo completamente diverso di vedere il mondo che dobbiamo salvaguardare (preserve). Per quanto l’intento possa essere buono, il risultato è che eleviamo sì la lingua di questi popoli quando presenta caratteristiche interessanti che non esistono nelle lingue a noi più familiari, ma non pensiamo alle conseguenze pericolose che questa ipotesi logicamente implicherebbe. Prendiamo l’esempio del cinese, una lingua in cui non esiste né tempo futuro né passato, in cui non esiste il genere, in cui non esiste l’ipoteticità. Le seguenti frasi sono ben distinte in italiano (così come in inglese):
“Se vedi mia sorella capisci che è incinta”
“Se vedessi mia sorella capiresti che è incinta”
“Se avessi visto mia sorella avresti capito che è incinta”
Tuttavia, queste tre frasi si traducono allo stesso identico modo in cinese, ovvero:
“Se tu vedi io sorella tu sai lei incinta diventa”
Non esiste il condizionale, non esiste il passato.
Seguendo la logica dell’ipotesi Sapir-Whorf, potremmo pensare che i cinesi non siano in grado di percepire l’ipoteticità a livello teorico oppure che la percepiscano con maggiore difficoltà. Questa è chiaramente un’idea assurda e sbagliata che nemmeno i più ferventi sostenitori (fervent/warm supporters of) dell’ipotesi Sapir-Whorf avanzerebbero (would promote, propose). In altre parole: quando una lingua ha qualcosa che la nostra non ha (soprattutto se è una lingua parlata da una tribù di pochi elementi) ne siamo meravigliati, ma quando a una lingua manca una caratteristica che esiste nella nostra siamo molto più cauti (cautious) nel trarre conclusioni (draw conclusions) del tipo “i cinesi sono meno capaci di percepire aspetti della realtà” o, addirittura “i cinesi sono meno intelligenti”. Due pesi, due misure (double standards), insomma.
Le lingue non influenzano né il nostro modo di pensare, né sono influenzate dai nostri bisogni come popolo, per così dire. Non è che i Tuyuca posseggano un evidential marker perché gli serve nella loro vita di tutti i giorni, così come noi italiani non abbiamo il congiuntivo perché non possiamo stare senza (do without) a causa del nostro stile di vita molto… ipotetico? I nostri vicini francesi hanno un congiuntivo molto meno ricco del nostro e non sembrano aver problemi a percepire l’ipoteticità di una situazione. Le lingue semplicemente si evolvono in maniera casuale e imprevedibile. Come spiega McWhorther, le lingue sono come una zuppa, al cui interno inevitabilmente si formano delle bolle (bubbles). Non sappiamo dove, non sappiamo quante, non sappiamo quanto grandi, ma sappiamo che delle bolle da qualche parte spunteranno (they are going to pop up). Queste bolle sono le complicanze, le stranezze, le peculiarità della lingua: sono il congiuntivo in italiano, sono i numerosi tempi dell’inglese, sono i verbi di movimento in russo, sono i toni in cinese, ecc.
Questa teoria è conosciuta anche con il nome di teoria del caos.
In conclusione, la grammatica di una lingua non influenza il nostro modo di pensare o la nostra visione del mondo. Sicuramente la nostra cultura influenza il vocabolario della nostra lingua, ma questo è francamente come scoprire l’acqua calda (reinventing the wheel). È ovvio che se in arabo ci si saluta utilizzando una frase traducibile con “su di te la pace e la misericordia di Dio” questo dice qualcosa sulla loro religiosità, ma non è niente di sorprendente (it doesn’t come as a surprise). Le lingue sono interessanti più che altro perché sono tutte in grado di esprimere gli stessi concetti, e lo fanno adoperando le strategie più disparate (employing all kinds of strategies), a volte ingegnose (ingenious – this time!), a volte davvero stupefacenti. Magari per esprimere un concetto in una lingua non esiste una parola e abbiamo bisogno di più parole, ma non c’è nulla che non possa essere tradotto. Vi lascio con una citazione di McWhorther che mi sembra riassuma bene il suo libro:
“Se volete studiare la maniera in cui gli essere umani sono diversi, studiate le culture. Ma se volete capire meglio ciò che rende gli essere umani di tutto il mondo uguali, oltre alla genetica, ci sono ben pochi posti migliori da dove iniziare che non siano le lingue”.
Questo era tutto per oggi, vi ringrazio per averlo ascoltato questo episodio di livello avanzato, vi consiglio di riascoltarlo più di una volta per interiorizzare le strutture e le parole complicate che ho utilizzato in questo testo. Se vi è piaciuto questo episodio vi chiederei di lasciare una recensione su Apple Podcasts, questo aiuterebbe altre persone a trovare Podcast Italiano. Grazie ancora per l’ascolto, alla prossima! Ciao.