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L'uomo che decise il DESTINO dell'italiano

September 22, 2024

Trascrizione

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La storia della lingua e letteratura italiana ha tanti protagonisti, ma ce n’è uno che ha dato un contributo fondamentale alla loro evoluzione: Pietro Bembo. Mai sentito? Non mi sorprende: Bembo non è molto conosciuto dal grande pubblico, ma parliamo di un individuo che ha determinato per sempre il corso dell’italiano, e ha avuto la capacità di rendere ancora più grandi i grandi autori del Trecento — le tre corone fiorentine Dante, Petrarca e Boccaccio, di cui abbiamo parlato — grazie a un’intuizione vincente. La sua importanza è tale che alcuni gli conferiscono il titolo di Quarta Corona.

Trascrizione con glossario sul Podcast Italiano Club

Ciao a tutti, questo è Podcast Italiano, un canale per chi impara o ama l’italiano. Trovi la trascrizione di tutto quello che dico in questo video sul mio sito. Ti lascio il link in descrizione. E attiva i sottotitoli se ne hai bisogno!

Per comprendere l’importanza di Bembo, dobbiamo prima dare un’occhiata al contesto in cui viveva, e in particolare alla storia dell’italiano del Quattro e del Cinquecento.

Nel Quattrocento, i testi legati alla letteratura e alla cultura venivano scritti molto più spesso in latino, anziché in italiano, perché — lo sapete, no? — il latino era considerato la lingua più alta, più nobile, più adatta a svolgere i compiti più importanti; il latino era figo, un po’ come lo è oggi l’inglese.

Nella seconda metà del secolo, però, la lingua volgare inizia a guadagnare terreno. Ricordiamo che con lingua volgare non mi riferisco alle parolacce (a quelle dedicherò un video molto presto), bensì all’insieme delle lingue derivate dal latino e parlate in Italia, cioè le lingue parlate dal volgo, dal popolo, dalla gente. Ecco, il volgare, nel corso del Quattrocento, comincia a essere percepito in modo diverso, perché comincia a scomparire l’idea che non abbia dignità culturale.

Il tempo passa e, entro la fine del secolo, non è più il latino a dominare, bensì il volgare. Ciò significa che ciascuno scrive sulla base della propria lingua locale, sulla base di quello che oggi chiameremmo dialetto. Non si tratta, quindi, del solo fiorentino, ma delle lingue di tutta l’Italia. A volte, i tratti più regionali vengono rimossi, ma questo è un esercizio che soltanto alcune persone cólte riescono a realizzare, e comunque in modo non sistematico, anche perché non c’era una lingua standard.

Nel Cinquecento, si avverte la necessità di avere una lingua comune a tutto il territorio della penisola. I vari volgari andavano bene per la comunicazione regionale, ma ora è necessaria una soluzione adatta a un territorio più vasto: oggi diremmo uno standard, appunto. Per di più, a inizio Cinquecento si diffonde in modo vastissimo una nuova tecnologia, la stampa, e anche gli editori necessitano di un modello linguistico coerente, che non cambi a seconda della regione che si considera. Immaginate se, oggi, non sapessimo se usare la versione siciliana, lombarda, o toscana di una parola. Sarebbe un incubo.

Esplode quindi un dibattito molto acceso: quale deve essere questo modello? Questo dibattito è conosciuto questione della lingua. In parte si risolverà proprio nel Cinquecento, con Bembo, e in parte rimarrà aperto per i successivi quattrocento anni, quasi fino a oggi. Il dibattito è così famoso che al proposito si trovano tantissimi libri, anche destinati al grande pubblico, come questo, di Claudio Marazzini. Ma già nel Cinquecento, ormai, non si può più tornare indietro: gli intellettuali e la società dirigente non possono più rinunciare ad avere una lingua comune.

Si formano dunque tre schieramenti, tre fazioni, ciascuna delle quali propone una soluzione diversa:

Il primo schieramento, quello della lingua cortigiana, dice che bisognerebbe prendere esempio dalla lingua delle corti, perché lì si incontravano gli intellettuali e i membri della classe dirigente provenienti da tutta la Penisola. La lingua era quindi meno dialettale e più cosmopolita, e per di più era anche ritenuta elegante. Ciò nonostante, era una lingua viva, effettivamente parlata e nata da bisogni concreti, quindi adatta alla comunicazione di ogni giorno. Per di più, ai sostenitori della lingua delle corti non dispiacevano gli spunti provenienti dal latino e dalla lingua letteraria toscana, che costituivano, al tempo, le due fonti più autorevoli, le due lingue più sexy sul mercato.

Poi c’erano quelli che sostenevano il fiorentino vivo, cioè parlato, partendo dal presupposto che la lingua cólta di tutta la Penisola è già influenzata dal fiorentino dei grandi scrittori del Trecento, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio. Insomma, è da Firenze che bisogna ripartire, ma non in direzione del Trecento, bensì del presente, cioè di quell’epoca. Bisognerebbe, cioè, prendere esempio dalla lingua fiorentina del Cinquecento (che in duecento anni, ovviamente, era un po’ cambiata).

Il terzo schieramento è quello del fiorentino arcaizzante, cioè del fiorentino che resta voltato verso il passato, di un fiorentino arcaico, e in particolare del fiorentino delle Tre Corone. Non ci si pone proprio il problema della comunicazione quotidiana, perché per quello scopo ci sono i vari volgari regionali. Tutto ciò che conta è avere una lingua letteraria, artistica, per la cultura e per l’amministrazione; e l’unico modo per far sì che s’imponga davvero è far leva sul prestigio dei grandi autori. È proprio questa la tesi di Pietro Bembo. Potremmo dire make fiorentino great again? No, non potremmo dirlo.

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Soffermiamoci quindi un momento sulla vita di questo importantissimo personaggio della nostra storia.

Bembo nasce a Venezia nel 1470 da una famiglia nobile. Nel corso della giovinezza segue studi umanistici con molto rigore.

Entra nel mondo culturale volgare quando collabora con il grande editore veneziano Aldo Manuzio, che al suo tempo era uno dei più importanti maestri di quell’arte rivoluzionaria e nuovissima che era la stampa. Per Manuzio, Bembo progetta una collana di classici italiani, curando, tra le altre cose, un’edizione di Petrarca e una di Dante.

A un certo punto, però, Bembo decide di abbandonare Venezia e di cambiare lavoro, per cercarne uno che gli permetta di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Prima va alla corte di Urbino, nelle moderne Marche, poi decide di fare carriera in àmbito ecclesiastico — e ci riesce: diventerà persino cardinale.

Poi, nel 1525, abbiamo l’evento più importante di tutti: vengono pubblicate le Prose della volgar lingua, cioè l’opera con cui Bembo espone e mette in pratica la sua tesi, cioè la tesi del fiorentino arcaizzante. L’opera, di cui parleremo tra poco, diventa subito popolarissima, perché fornisce finalmente una soluzione concreta, verosimile e completa alla questione della lingua.

Sull’onda del successo, negli anni successivi, Bembo ripubblica vecchie opere e ne pubblica di nuove, così da mettere in pratica la sua tesi sul piano linguistico. Insomma, non dice semplicemente che bisognerebbe scrivere in un certo modo e seguire un certo esempio: lo fa, mostra chiaramente come applicare tutto quello che dice nelle Prose.

Il suo successo letterario è molto grande, e presto Bembo diventa una celebrità.

Infine, il nostro Pietro muore nel 1547, lasciandoci un’eredità incredibile.

Ma perché proprio Bembo riesce a ottenere così tanto successo? Perché è la tesi del fiorentino arcaizzante a vincere, sancendo così la sconfitta della lingua cortigiana e del fiorentino vivo?

La risposta sta in un’idea vincente: affinché un modello linguistico si imponga su tutti gli altri, deve trovarsi nel giusto equilibrio tra idealità e imitabilità: dev’essere un modello ottimo, ideale, che i parlanti (o scriventi, più che altro, in questo caso) già considerino praticamente perfetto, ma allo stesso tempo dev’essere raggiungibile e imitabile. Insomma, è inutile proporre un modello perfetto ma completamente astratto, perché nessuno riuscirà mai a raggiungerlo, non avendo degli esempi concreti; ma è altrettanto inutile proporre un modello semplice e facilmente imitabile, ma che non sia considerato ottimo, perché nessuno lo imiterebbe.

Già quando dibatte a proposito della lingua latina, Bembo dice che è inutile prendere esempio da tutti i grandi scrittori, rubando qualcosa da ciascuno, un po’ di qua e un po’ di là; visto che dobbiamo imitare, allora facciamolo bene, e scegliamo solo il meglio del meglio, la crème de la crème.

Bembo, dunque, applica la stessa riflessione alla lingua volgare, e mette sotto i riflettori Petrarca (che in assoluto dovrà essere il massimo punto di riferimento, in particolare per la poesia) e Boccaccio (riferimento principale per la prosa). Questi due autori offrono un modello alto, imitabile e al contempo considerabile — e considerato — come il meglio del meglio che ci sia in italiano. Manca… manca qualcuno, vero? Ma chi? Ah sì, Dante. Anche Dante è un autore di prim’ordine, ma il suo uso della lingua per Bembo è troppo vario, perché passa dalle parolacce, dal turpiloquio (come merda e puttana), alle parole più delicate e nobili. Bembo, invece, vuole selezionare solo le parole migliori, più eleganti e perfette; ed ecco perché è un grandissimo ammiratore di Petrarca, che scriveva esattamente con questo proposito e, per gli stessi motivi, non era un fan di Dante.

Tutta questa riflessione, già a partire dal 1512, viene messa nero su bianco da Bembo, che per anni s’impegna a perfezionare la sua opera il più possibile, fino alla pubblicazione nel 1525: stiamo parlando proprio delle Prose della volgar lingua, che verranno ancora ritoccate e ripubblicate nel 1538.

A proposito, non è questo il vero titolo scelto da Bembo. Volete sapere qual è il vero titolo? Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de Medici che poi è stato creato a sommo pontefice et detto papa Clemente settimo divise in tre libri.

Insomma, non aveva forse il dono della sintesi, ecco. Su YouTube questo titolo non funzionerebbe.

L’opera ha la forma di un dialogo, mai avvenuto in realtà ma che Bembo immagina per rendere più efficace il suo ragionamento, per autocriticarsi tramite la voce di alcuni personaggi e per difendere le proprie idee con altri personaggi ancora. Questo dialogo sarebbe avvenuto a Venezia tra Giuliano de’ Medici, membro di un’importantissima casata toscana; Federico Fregoso, un religioso amico di Bembo; Ercole Strozzi, poeta latino di Ferrara; e, infine, Carlo Bembo, fratello minore di Pietro — lo chiameremo amichevolmente Carlo, d’ora in poi.

L’opera viene divisa in tre libri. Nel primo, vengono esposte le origini e le caratteristiche del volgare, per poi passare alla tesi del fiorentino arcaizzante e dell’importanza di imitare i migliori scrittori.

Nel secondo, si spiega come usare al meglio la lingua, anche sul piano retorico e stilistico. Bembo espone la propria teoria estetica, la sua idea di lingua bella armoniosa, per poi spiegare perché proprio i modelli di Petrarca e Boccaccio sono perfetti per apprenderla. Infine, si spiegano le ragioni per cui Petrarca è preferibile a Dante.

Nel terzo libro, invece, troviamo una vera e propria grammatica di riferimento. Pensate al sollievo che dovettero provare i poveri uomini colti dell’epoca, in un’epoca in cui Purtroppo, non c’erano né internet, né Podcast Italiano, quando finalmente ebbero a disposizione una guida per l’uso della lingua dei grandi autori del Trecento.

Vorrei mostrarvi concretamente in che cosa consista questa grammatica. Leggiamo un breve passaggio tratto dal terzo libro:

Nella seconda voce del numero del meno, è solamente da sapere che ella sempre nella I termina, se non quando i poeti la fanno alcuna volta, ne’ verbi della prima maniera, terminare eziandio nella E; sí come fe’ il Petrarca, che disse:

Ahi crudo Amor, ma tu allor piú m’informea seguir d’una fera, che mi strugge,la voce, i passi e l’orme.

Bembo sta parlando dei verbi, che ha presentato nelle sue varie “maniere”, cioè con le sue varie desinenze: -are, -ere e -ire. Ci dice che nella «seconda voce del numero del meno», cioè alla seconda persona singolare diremmo oggi, cioè tu, la parola finisce sempre in -i. Pensate a mangi, mangiavi, mangeresti, mangiassi, mangerai, e così via.

Ci fa anche notare, però, che a volte i poeti usando anche («eziandio» — questa ve la potete rivendere se volete sembrare fighi) la desinenza -e, come Petrarca, che scrive Ahi, Amore crudele, mi persuadi («m’informe») a seguire la voce, i passi e le orme di una bestia che mi fa soffrire. La forma normale sarebbe m’informi, ma Petrarca usa «m’informe», che, appunto, Bembo definisce una variante poetica.

Notiamo quindi che Bembo dà già una forma precisa alle forme dell’italiano, le colloca in categorie, sottolinea le eccezioni distinguendo i vari registri (tra cui quello poetico).

Molte delle prescrizioni grammaticali di Bembo riguardano forme che coincidono con quelle che usiamo ancora oggi in italiano e che hanno avuto la meglio su forme che si usavano, ma che Bembo decide di scartare. A lui dobbiamo il successo delle uscite del congiuntivo imperfetto -i, -i, -e, (io dicessi, tu dicessi, ma lui/lei dicesse), oppure il condizionale in -ei (amerei, farei, direi) al posto del poetico ma non toscano -ia (amaria, faria, diria). Oppure, se al congiuntivo dei verbi dare e stare abbiamo le forme con la i dia e stia e non le più antiche dea e stea (ed entrambe le opzioni, tra l’altro, si incontrano nei testi delle Tre Corone), questo **è proprio grazie a Bembo, che privilegia la forma con la -i.

Ci sono anche casi in cui per qualche motivo Bembo ci stupisce e consiglia la forma più moderna, quella del fiorentino parlato nella sua epoca, anche andando contro all’uso delle Tre Corone: per esempio prescrive dieci al posto di diece (la forma che era preferita di gran lunga dalle Tre Corone), e anche in questo caso la sua indicazione si è rivelata vincente. Oggi diciamo diec**i.**

Certo, ci sono casi in cui le sue prescrizioni oggi suonano arcaiche, ma sono la minoranza.

Notiamo anche come le Prose non costituiscano una grammatica pesante, fatta di liste, di tabelle, di termini tecnici. Ovviamente, oggi lo sarebbero, ma dobbiamo contestualizzare: al tempo, c’erano molte meno risorse per l’apprendimento, rispetto a oggi. Addirittura, per essere quanto più chiaro e meno tecnico possibile, Bembo non usa nemmeno i termini maschile e femminile, bensì i più semplici del maschio e della femmina, come anche, invece di singolare e plurale, numero del meno e numero del più. Il tutto amalgamato in un dialogo che, in qualche modo, scorre come una narrazione.

Se pensiamo invece alla lingua su cui Bembo si è basato per costruire la sua grammatica, è interessante leggere la risposta che, nel primo libro, il fratello Carlo (che, appunto, rappresenta l’opinione di Pietro Bembo) dà a Giuliano de’ Medici. Ascoltiamo direttamente Carlo in lingua originale (e a schermo lascio la traduzione in italiano moderno):

Debole e arenoso fondamento avete alle vostre ragioni dato, se io non m’inganno, Giuliano, dicendo, che perché le favelle (cioè, le lingue) si mutano, egli si dee sempre a quel parlare, che è in bocca delle genti, quando altri si mette a scrivere, appressare e avicinare i componimenti, con ciò sia cosa che d'esser letto e inteso dagli uomini che vivono si debba cercare e procacciare per ciascuno.

[Modernizzato: Se non mi sbaglio, Giuliano, Lei ha dato una base debole e infondata alle Sue ragioni, dicendo che poiché le lingue cambiano, allora chi si mette a scrivere deve sempre avvicinare i testi al modo di parlare della gente comune, dal momento che per ciascun testo si deve cercare e ottenere che sia letto e compreso dagli uomini che vivono qui e ora]

Perciò che se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono, maggior loda si convenisse dare che a quegli che le scritture loro dettano e compongono più figurate e più gentili;

[Perché se questo fosse vero, allora a chi scrive con la lingua del popolo bisognerebbe dare più lodi che a chi scrive testi più elaborati retoricamente e più curati]

e Virgilio meno sarebbe stato pregiato, che molti dicitori di piazza e di volgo per aventura non furono, con ciò sia cosa che egli assai sovente ne’ suoi poemi usa modi del dire in tutto lontani dall’usanze del popolo, e costoro non vi si discostano giamai.

[e Virgilio sarebbe stato meno pregiato di quanto, forse, non furono tanti poeti dilettanti e improvvisatori di piazza, visto che Virgilio spesso, nei suoi poemi, usa espressioni assolutamente lontane da quelle del popolo, e i dilettanti invece non ci si allontanano mai]

La lingua delle scritture, Giuliano, non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza;

[La lingua scritta, Giuliano, non si deve avvicinare a quella del popolo, se non quando, facendolo, non perda mai il suo decoro, non perda grandezza]

che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato.

[altrimenti la lingua scritta si deve allontanare da quella del popolo, quanto le basta a mantenersi in uno stato grazioso e curato]

La lingua scritta, insomma, secondo Bembo deve avere un modello autorevole, prestigioso; e quel modello si trova, se per esempio parliamo di lingua latina, nei grandi autori come Virgilio, e in italiano, invece, in Petrarca e in Boccaccio. Non bisogna invece avvicinare i testi al modo di parlare della gente comune, perché così diventerebbero più rozze e meno aggraziate.

E questa idea funziona alla grande, perché è più facile vendere il modello di Petrarca e Boccaccio, quando gli uomini di cultura sono già convinti loro stessi che questi due autori siano tra i migliori.

Secondo Bembo, la lingua cortigiana è ridicola, perché non è qualitativamente paragonabile ai grandi; e la lingua del popolo, invece, deve restare tale: una lingua per la comunicazione, che non è fatta per scrivere bene. Solo una lingua è adatta alla buona scrittura, ed è la lingua dei più grandi autori, dei grandi tra i grandi.

Con questo viaggio, abbiamo capito che la storia della lingua italiana, nel Cinquecento, inizia a guardare al passato, perché si rivolge alle forme del Trecento, ed è anche classicistica, perché è legata all’imitazione dei grandi modelli. Vince l’idea secondo cui la lingua del popolo cambia sempre, ed è quindi più fraintendibile e meno efficace sul lungo termine. La lingua dei grandi autori, invece, a suo modo è destinata a durare per sempre. E questa idea di guardare ai grandi del passato ha avuto un’influenza sulla letteratura italiana che è durata per secoli e secoli dopo Bembo.

Bembo ha avuto il merito di aver messo insieme tutti i pezzi del mosaico, di aver illustrato approfonditamente la sua teoria, di aver detto in modo convincente che le altre teorie erano in errore, e anche di aver fatto funzionare la propria teoria su larga scala.

Il piano ha funzionato alla grande, e Bembo, con la sua opera, diventa immortale. Certo, quasi nulla in realtà di ciò che Bembo propone è una creazione completamente originale: Petrarca e Boccaccio erano stati già proposti come modelli in passato, e il primato della lingua letteraria era già stato teorizzato.

Bembo non è stato il primo a scrivere una grammatica della lingua toscana, perché il primato va all’umanista Leon Battista Alberti, che circa 80 anni prima aveva scritto la sua Grammatichetta, rimasta però inedita — che tra l’altro se vogliamo era in un certo senso più “moderna”, almeno per la nostra sensibilità, di quella del Bembo, visto che descriveva il fiorentino del suo tempo (il quattrocento) e non imponeva modelli arcaici, come fa Bembo: era più descrittiva e meno prescrittiva.

Ma Bembo non è nemmeno il primo ad aver scritto una grammatica che è stata effettivamente stampata: qui il primato va alle Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio, pubblicate nel 1516 (9 anni prima delle Prose Bembo). Anche questa tra l’altro è un’opera ispirata agli autori del Trecento, sebbene molto diversa nell’impostazione rispetto a quella di Bembo, molto più schematica, con liste di forme da usare.

Tra l’altro Fortunio accusò Bembo di avergli copiato la grammatica; accusa che Bembo rigira a sua volta a Fortunio, accusandolo di aver copiato un suo libretto già era in circolazione da qualche decennio.

Comunque, come siano andate veramente le cose forse non lo sapremo mai, ma resta il fatto che la grammatica di Bembo ebbe la meglio ed ebbe un’influenza duratura.

La nostra storia, però, non si ferma qui. La questione della lingua sarebbe andata avanti, e il dibattito si sarebbe protratto fino a oggi. Tante altre teorie verranno proposte, ma alla fine il modello di Bembo rimarrà il più seguito. Per questo, per secoli la lingua scritta sarebbe stata pesantemente influenzata dal modello di Petrarca e di Boccaccio.

Dobbiamo ancora comprendere, però, perché questa lingua cólta sia tutt’oggi così simile alla nostra. Per questo, ti do appuntamento ai prossimi video. Fammi sapere se ti stanno piacendo i video di questa serie e se avevi mai sentito parlare della figura di Pietro Bembo.

Ah, ti ricordo di iscriverti alla lista d’attesa del mio corso intermedio-alto per assicurarti condizioni speciali quando ci sarà la prevendita. Trovi il link qui sotto. Alla prossima!

Oggi parliamo di un personaggio non così famoso ma fondamentale nella storia della lingua italiana: Pietro Bembo.

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